Nella solitudine dei campi di cotone: Andrea de Rosa ritorna al Napoli Teatro Festival con Koltès.
Ritornare a teatro dopo mesi di chiusure e restrizioni è stata un’esperienza surreale e piacevole allo stesso tempo. Agli ingressi contingentati, ai termometri, alle mascherine ero ormai abituata. Più d’impatto è stato vedere la platea ridotta all’osso, distanziata: poche decine di sedie separate da spazi quasi siderali.
Il teatro in tempo di covid19 quasi dà l’impressione di un’istallazione, una scena spartana, in cui non è possibile toccarsi, avvicinarsi, scambiarsi gesti o oggetti, attori che si mantengono a distanza, senza amai sfiorarsi: se un personaggio avanza, l’altro irrimediabilmente indietreggia. Ma se anche in queste condizioni il teatro riesce ad affascinare, allora deve essere davvero qualcosa di magico.
Due luci, un drappo di velluto rosso, una scena essenziale. Due personaggi: un lui e una lei, in realtà due lui. Federica Rosellini, statuaria in uno stupendo costume d’epoca, e Lino Musella, perfettamente padrone del palco come del personaggio, sono rispettivamente un venditore e un compratore: si incontrano in un luogo indefinito, in un momento indistinto tra l’alba e la notte. Si incontrano per una transazione, perché il commerciante ha qualcosa che il compratore potrebbe volere, sa per certo di averlo. La vendita si svolge come una partita a poker, come un appuntamento al buio: per un’ora e trenta le due parti definiscono le condizioni di questo affare senza in realtà svelare nulla sull’oggetto della vendita, senza che lo spettatore possa comprendere di cosa disponga il venditore e di cosa abbia veramente bisogno di il compratore.
Andrea De Rosa sceglie uno dei testi più misteriosi e complessi di Bernard-Marie Koltès per il suo ritorno sulle scene post-covid e ne approfitta per innestare una riflessione sul teatro.
Ho immaginato il luogo dove si svolge Nella solitudine dei campi di cotone come un teatro vuoto; ho immaginato il personaggio del “venditore” come un’attrice dimenticata su un palcoscenico e il “cliente” come un uomo che viene da fuori; ho immaginato che la merce intorno alla quale si conduce la misteriosa trattativa tra i due personaggi riguardasse il teatro stesso. Se è vero, infatti, che possiamo vedere davvero uno spazio solo nel momento in cui si svuota, allora questo è un momento privilegiato per chiederci il teatro cos’è.
La soluzione non è a portata di mano: il testo di Koltès è fatto di un botta e risposta fittissimo, un dialogo apparentemente serrato in cui in realtà non sempre le domande e le risposte combaciano: il testo è uno scorrere copioso di parole, interrogativi, riflessioni, domande che partoriscono altre domande. In scena, come protagonista indiscusso c’è un flusso di pensieri, che nelle intenzioni dell’autore vuole solo aprire all’esame, al ripensamento sulla condizione umana: Koltès non vuole dare risposte, ma solo intavolare un ragionamento, stimolare alla riflessione.
Il lessico, dunque, è spesso filosofico, ridondante, macchinoso, traboccante di similitudini che tentano di rendere le immagini e i concetti più chiari e lampanti. Eppure il testo rimane complesso, come complessi e ambiziosi sono i nuclei del ragionamento: il desiderio, la solitudine, la difficoltà, a tratti l’impossibilità delle relazioni umane, la conoscenza dell’altro resa impossibile da un estremo relativismo conoscitivo.
Andrea de Rosa osa una scelta coraggiosa, un testo funambolico e di difficile digestione, in nome di un’esigenza, un’urgenza: quella di riflettere. In un momento così difficile per il teatro, categorico imperativo è la riflessione, la discussione, il ripensamento delle priorità, la distruzione di false certezze e la ricostruzione. E questo spettacolo sembra proprio avere l’andare del crollo, il rumore della rovina, il polveroso caos delle macerie.