Gli scavi di Ercolano come non sono mai stati criticati prima!
Quando si pensa agli scavi di Ercolano si ha immediatamente l’idea di un gioiello incastonato nel cuore dell’antichità, che caratterizza un vastissimo panoramastorico ed artistico e del quale si disquisisce ancora oggi con trasporto.
Il motivo di questo acceso interesse risiede ovviamente nella prepotente emersione di una città sotterranea, quasi dormiente sotto un manto di fango, lapilli e cenere dopo l’eruzione del Vesuvio del 79, che rivendica fin da subito l’esigenza di una classe di studiosi specializzati nel comprendere quali grandi tesori stavano per vedere la luce dopo i primi scavi archeologici.
È il caso dell’Accademia Ercolanese che costituì un collegio di dotti in grado di dedicarsi alle “delucidazioni sulle antichità Ercolanesi” quali i rotoli latini e greci ritrovati all’interno della celebre Villa dei Pisoni, così da conservarne la memoria e offrirne una catalogazione.
In effetti proprio i papiri ercolanesi furono oggetto di studio, poiché aprirli senza distruggerli richiese una serie di tentativi e di strumenti, che trovarono poi epilogo in una lenta esposizione al sole sotto una campana di vetro affinché si potessero dischiudere.
In particolare, attorno alla figura di Carlo di Borbone e alla équipe al suo servizio – tra cui l’ingegnere ed archeologo Roque Joaquín de Alcubierre che si occupò degli scavi nel Regno di Napoli a partire dal 1738 – aleggia un’atmosfera quasi eroica, per aver dato un forte impulso non solo agli scavi, ma anche alla conservazione e alla catalogazione dei beni rinvenuti.
Ma se non fosse tutto oro quello che luccica?
Bene, a dare un taglio a tutta questa gloria e al merito che sembravano eterni, arriva l’archeologa Agnes Allroggen-Bedel, la quale interrompe l’idillio che sembra riguardare Napoli e gli scavi stessi attraverso le sue riflessioni.
In primis, gli scavi furono casuali e sono da interpretare come la ripresa di scavi già precedentemente iniziati per interesse del principe Elboeuf; anzi addirittura Carlo di Borbone era contrario al procedere dell’impresa e si convinse al prosieguo degli scavi solo una volta rinvenute delle statue nella zona del teatro.
Si fa risalire la costruzione del palazzo reale di Portici e del Museo che lo accompagna ad una passione storica, quando in realtà Portici stessa fu scelta come location poiché si prestava egregiamente a luogo di vacanze in cui dedicarsi alla caccia e alla pesca; per cui la scelta di affiancare anche il Museo fu da intendere come “ulteriore attrazione”.
Gli scavi stessi erano solo un modo per attirare sul sovrano giudizi positivi, tali da definirlo “re archeologo”, “re papirologo” o anche “rex aedificarus” per le molteplici costruzioni di cui beneficiò il Regno di Napoli sotto la sua influenza; ma in particolare Carlo diffuse l’idea del monarca illuminato e dedito alla cultura.
Avviene una vera e propria strumentalizzazione della cultura al fine di garantire lustro e memoria storica alla propria corona, un tratto che appare modernissimo, quanto la scelta attuata nell’esposizione degli oggetti di uso quotidiano rinvenuti ed ordinati in armadi.
Le critiche mosse al sovrano sono forti e dure, non fu certamente un re archeologo; ma non si può definire del tutto insensibile al fascino delle arti e delle scoperte, infatti presenziò in prima persona agli scavi e il suo interesse fu tale da discendere anche nelle viscere sotterranee di Ercolano per ammirare più da vicino le scoperte.
Forse la verità sta nel mezzo?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Alessandra De Paola
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