Levi, tra chimica e inchiostro
Nel novembre del 1986, lo scrittore americano Philip Roth intervistò Primo Levi e nell’intervista non mancò di far riferimento al “sapore forte e amaro” dell’esperienza di chimico, un lavoro che Levi svolse per tutta la sua vita e di cui si fa riferimento in molti dei suoi scritti, soprattutto nel romanzo Il sistema periodico, quinto libro scritto dall’autore e pubblicato nel 1975.
Se c’è una cosa, infatti, che contraddistingue Primo Levi, è certamente la sua anima ibrida, “un’anima unita senza saldatura”, come dirà egli stesso, in cui la personalità del chimico e quella dello scrittore – benché siano due anime molto diverse tra loro – convivono contaminandosi e rafforzandosi a vicenda diventando un’unica anima ibrida.
E proprio per via di questo nevrotico ibridismo, sia culturale che esistenziale, lo scrittore torinese, in tutta la sua carriera letteraria, si è più volte identificato nella figura del centauro. Una metafora che tra l’altro utilizzerà anche in diversi scritti.
Come il centauro, infatti, anche Levi era come “diviso” in due: non era certo metà uomo e metà animale, ma era per metà chimico e per metà scrittore. Da una parte infatti c’era l’anima del tecnico, della fabbrica, del chimico; dall’altra invece – completamente distaccata dalla prima – c’era quella dello scrittore, quella che rispondeva alle interviste e quella che lavorava sulle esperienze passate e presenti per interiorizzarle ed imprimerle su carta.
È chiaro quindi, come queste due anime fossero inscindibili tra di loro, aspetto che confermerà lo stesso Levi nella sua autobiografia professionale quando affermerà di essere “chimico e chimico da troppo tempo per sentirmi pienamente un letterato o un lettore, eppure allo stesso tempo sono troppo distratto dal paesaggio variopinto per sentirmi chimico in ogni fibra del suo corpo.”
Eppure a quest’ibridismo che, come dirà sempre nel corso dell’intervista con Roth non è sempre stato facile da gestire, Levi deve forse tutta la sua carriera perché l’anima del chimico sorretta dal sangue dello scrittore, gli ha permesso di guardare il mondo sotto una luce diversa, inconsueta poiché è stato capace di rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato e le lettere con l’occhio della tecnica.
Inoltre – questo l’aspetto più importante – come egli stesso confesserà al fisco Tullio Regge, è proprio in laboratorio che ha imparato l’atto dello scrivere perché è da lì che è riuscito a “sgraffignare” una serie di metafore che sono poi diventate le tessere della sua scrittura. Dichiarazione che tra l’altro ritroveremo anche nel saggio Ex-chimico presente nel romanzo L’altrui mestiere, dove, a proposito, scriverà che: “C’è poi un immenso patrimonio di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di ieri e di oggi.”
La pratica quotidiana della sperimentazione, infatti, gli ha fornito inevitabilmente un ampio assortimento di metafore che erano sue e sue soltanto. A proposito, nel discorso con Regge, farà l’esempio del colore azzurro asserendo che i reagenti chimici gli hanno regalato cinque o sei tipi di azzurro che non sono per niente identificabili con il banale azzurro del cielo.
Ecco, queste sfumature che Levi prende in prestito dal suo laboratorio, gli hanno permesso di possedere una tastiera semantica in più rispetto ad altri autori rendendolo, di fatti, unico nella sua scrittura; una scrittura essenziale, precisa, necessaria e diretta come solo un uomo di scienza sa fare.
E di fatti più volte Levi ha accostato il lavoro del laboratorio e l’esercizio della scrittura trovandoli due esercizi molto simili tra di loro.
Per Levi, infatti, la pratica dello scrivere è tranquillamente accomunabile alle funzioni esercitate nei laboratori e nelle fabbriche per il semplice fatto che anche la scrittura, esattamente come il chimico, gestisce una materia prima che nel suo caso risiede nelle esperienze di vita e se lo scrittore manca di questa materia prima, finisce con lo scrivere a vuoto. L’uomo deve parlare delle sue esperienze e di fatti, all’inizio de Il sistema periodico, sul foglio di guardia c’è una frase in tedesco che recita “è bello raccontare i guai passati” e credo sia emblematica per il discorso che stiamo affrontando.
È chiaro quindi che il pensiero di Levi trova le sue fondamenta sull’idea che raccontare i fatti e le emozioni tratte dal proprio vissuto, significa non solo descrivere il reale visto le esperienze che si sono provate sulla propria pelle non hanno in sé dati che non si possono falsificare, ma soprattutto significa misurarsi con la materia e questo perché esattamente come il chimico, anche lo scrittore vuole – a modo suo e per quello che chiaramente concerne il suo mestiere – conoscere la materia, conoscerne la composizione e quindi poterne in qualche modo prevedere i comportamenti. E in questo modo entrambi, chimico e scrittore, dimostrano di non volersi limitare alla superfice delle cose. Ecco, questo è ciò che parifica uno scrittore e un chimico.
Oltre questo, il mestiere del chimico gli ha insegnato anche l’arte della precisione, della sintesi, dell’essenziale che insegna ad evitare il superfluo, il non necessario. Ma, soprattutto, gli ha insegnato la sacra arte della pazienza perché così come il chimico deve stare attento a ciò che fa in laboratorio e deve essere paziente nel ritentare i suoi esperimenti che di conseguenza lo spingono anche a prendersi la responsabilità dei suoi gesti qualora fallisse, così lo scrittore deve essere preciso e paziente nella scrittura, nell’elaborazione delle parole che deve scegliere con cura e nella combinazione e mescolanza di queste, e una volta scelte deve poi prendersi le responsabilità del suo operato, proprio come il chimico.
I due mestieri si intrecciano e si interscambiano ancora una volta perché così come il chimico combina gruppi di molecole, lo scrittore combina parole e idee.
Insomma, se Levi non fosse stato prima un chimico, non sarebbe mai stato uno scrittore.
Adele De Prisco
Vedi anche: L’inverno dei processi alle streghe di Salem