Calcio: mas que un “sport”
Il calcio, come ogni altra attività sportiva e agonistica, è molto di più di ciò che sembra.
Non si tratta di un banale gioco o di un semplice mestiere.
Certi scontri, certe divisioni e certe scelte segnano il carattere più profondo di questo fenomeno.
Fin dall’antichità, il concetto di sport è stato capace di valicare i suoi confini naturali. Non solo un’attività fisica finalizzata a perfezionare il corpo del praticante, ma anche un fenomeno sociale che aggrega gli individui intorno ad un vero e proprio culto.
Questo culto ha origini antiche: le prime “Olimpiadi” – eventi sportivi nati con finalità religiosa e svolti nella città di Olimpia – si tennero nell’anno 776 a.C., prima che Romolo fondasse la capitale di uno dei più grandi imperi del mondo antico!
Già allora, i più grandi talenti dell’arena non passavano inosservati: poemi e sculture facevano le veci delle odierne celebrazioni su quotidiani e gazzette. Persino il boato e il fragore delle guerre, di fronte ad un evento di simile portata, erano costretti a tacere. Non deve stupire che già Omero cantava di gare e competizioni sportive nella sua Iliade. L’azione catalizzatrice degli sport è innegabile: Roma ne sfruttò la potenzialità per sfogare gli istinti violenti della plebe, allontanandola dalle vere questioni sociali e politiche.
Ma veniamo ad oggi. Un club spagnolo, l’Athletic Bilbao, dalla sua fondazione, applica una disciplina in controtendenza rispetto alla logica dei mercati calcistici internazionali. Visto il radicamento in un territorio che ha da sempre esplicitato le sue tendenze autonomiste e indipendentiste (ci troviamo infatti nella comunità dell’Euskadi, i Paesi Baschi), la squadra di Bilbao ammette nel suo team solo giocatori di origine basca. Ovviamente, nel mondo globalizzato di oggi, una norma così restrittiva è difficile da conciliare con dei grandi risultati, tanto che, se inizialmente solo baschi figli di baschi erano arruolabili nella rosa del Bilbao, nel corso di questo millennio si è assistito ad un ampliamento del “suffragio”: prima con l’estensione del sì nei confronti di stranieri figli di baschi, poi anche verso stranieri nipoti di baschi. Insomma, dei piccoli accorgimenti per stare al passo coi tempi mantenendo però una tradizione così forte e significativa.
Spostandoci nel Regno Unito, potremo notare altri due casi di ingerenze culturali e politiche nell’innocente e ingenuo football. Glasgow, una delle metropoli più importanti della Scozia, ospita ogni anno l’Old Firm, ovvero lo scontro tra Celtic e Rangers. Si tratta di un campionato scozzese di calcio. Questo scontro è vissuto come se si trattasse di una questione di vita o di morte. La rivalità tra le due tifoserie ha persino portato spesso a sanguinosi e violenti scontri.
Tuttavia, ancora una volta, l’inimicizia tra queste due squadre ha poco a che vedere con il terreno di gioco. Alla base sottostà un conflitto religioso e politico travestito da esibizione sportiva. Mentre i tifosi del Celtic sono cristiani cattolici e fautori di una politica indipendentista rispetto all’UK, i supporter dei Rangers appoggiano le fazioni unioniste e abbracciano la fede protestante. Sotto le due divise differenti, si celano così motivi molto più profondi che trasformano una disputa ludica in un vero e proprio conflitto di ideali.
Muovendoci verso sud nell’isola britannica, facciamo sosta a Londra. Sono tante le squadre londinesi a militare nella massima serie inglese, la Premier League: Chelsea, Arsenal, Fulham, West Ham, Crystal Palace. Nel periodo di massima diffusione del tremendo fenomeno degli hooligans (frange violente di teppisti sostenitori di team sportivi) erano molto frequenti gli scontri e le stragi perpetrate durante o subito dopo le manifestazioni sportive. Passò alla storia la tragedia dell’Heysel (1985) in cui, per queste motivazioni, persero la vita 39 tifosi durante la finale di coppa dei campioni tra Liverpool e Juventus.
Un’altra squadra originaria londinese, il Tottenham Hotspurs, è stata sovente vittima di attacchi di fronde skinhead e neonazi di hooligans a causa dell’alta percentuale di tifosi ebrei legati agli Spurs.
Non solo nel vecchio continente si riscontrano episodi simili correlati al gioco del pallone.
In America Latina si sa che la passione per il futebol è innata in ogni ragazzino che qui trovi le sue origini. Ciò è vero soprattutto in Brasile e Argentina, paesi che nella loro storia non hanno mai potuto godere di regimi effettivamente democratici o capaci di risollevare le sorti delle loro nazioni. Per questo il calcio è qui stato visto come un modo per esaltare la propria nazione, al di là delle catastrofiche condizioni politiche e economiche.
Nel 1950 la sconfitta nella partita finale contro l’Uruguay costò molto di più del solo secondo posto nel mondiale ospitato dal Brasile stesso. Lo stato con capitale a Brasilia, impoverito dallo sfacelo della seconda guerra mondiale, aveva visto nello svolgimento della coppa una speranza di rivincita e di raggiungimento della ribalta internazionale. I verdeoro partivano favoriti da ogni pronostico: eppure i cugini sudamericani dell’Uruguay riuscirono a spuntarla, aggiungendo un secondo successo a quello già maturato nel 1930. La reazione del popolo brasiliano fu tremenda: si calcola che il tasso di suicidi nel paese non abbia mai raggiunto percentuali simili e addirittura il portiere della seleçao incriminato di aver subito il gol decisivo per il trionfo uruguayano (Moacir Barbosa) il quale affermò in lacrime anni più tardi che «in Brasile la pena massima è di 30 anni, ma a me ne stanno facendo pagare molti di più».
Nonostante questa carrellata di notizie da cronaca nera, l’impiego politico del calcio può avere anche risvolti positivi. Un esempio in questo senso viene dall’Algeria. Quando infatti, negli anni 70’, il processo intrapreso di arabizzazione del paese aveva imposto una impenetrabile censura politica, il gruppo berbero e ribelle dei Cabili (abitanti di una particolare regione algerina) poté esprimere il suo dissenso al regime solo attraverso il tifo per una serie di squadre locali, tra cui la Jeunesse Sportive de Kabylie.
Giusy D’Elia
Vedi anche: Social, fake news e politica: quando le notizie fanno i fatti