“Le scarpe del flâneur” una poesia d’amore alla poesia
Le scarpe del flâneur è una silloge poetica di Jonathan Rizzo, un giovane poeta pubblicato nel 2020 con Ensemble.
Jonathan Rizzo è un giovane poeta nato per “errore di strategia” a Fiesole e trasferitesi presto a Parigi, sogno di tutta una vita, dove raccoglie immagini e le trasforma in poesia.
Quando e come è nata la tua raccolta poetica?
«Come una fuga tra la gente vera e la vita reale, per strada a Parigi a raccogliere ritratti e paesaggi di parole.»
Parigi è viva,
e io con lei.
Non abbiate paura.
Non regalategli voi stessi.
I mostri meritano pietà,
ma non il dono prezioso della paura.
Parigi è ancora viva, respira.
Io l’ho vista con questi miei occhi di uomo.
Non abbiate paura
di farlo anche voi.
La paura è lo scudo
di chi si fa forte
con la violenza.
Noi siamo immortali
perché sorridiamo
e amiamo la vita,
le sue figlie e i suoi figli.
[…]
Quanto Parigi e in particolare Baudelaire e Gainsbourg hanno influenzato la tua poetica?
«Fra amici ci si paga da bere a turno.»
Jonathan è un poeta irriverente, passeggia per città, succhia storie e le racconta, da qui, infatti, il titolo dell’opera.
Perché il titolo “Le scarpe del flâneur”?
«Il “Flâneur” è una figura letteraria di passeggiatore scrittore immaginata da Charles Baudelaire. Le “scarpe” si sono consumate col passare del vivere.»
Un poeta ebbro dalle scarpe consumate che si perde nella folla pieno di melanconia.
Piedi scalzi
su pezzi di vetro
in frantumi.
Una ragnatela vola
tra la gente ignara.
Puoi trovare tra la folla distratta
la ragazza con il vizio
della fotografia,
l’uomo che beve forte
per ricordare qualcosa
che altri hanno già dimenticato,
e il ragazzo che fuma
tra le dita tremanti.
Io sono lì a scrivere
delle nostre solitudini
fantasmi abituali.
Aspettiamo il tramonto
con le tasche piene di niente.
Questo rimane dell’esperienza umana.
L’ultimo lasci la luce accesa,
e un assegno ai bambini,
che paghino loro
le nostre colpe.
In fila ordinata
bruciano all’orizzonte,
mentre le rondini migrano a sud.
Cosa ti ha spinto e cosa significa, per te, la poesia?
«Una truffa che mi permette di farmi pagare da bere.»
Un artista che non prende nulla sul serio, ma che prende sul serio tutto.
Chi sono per te i “pazzi”?
«Basta guardarsi allo specchio. Più simbolicamente chi abbraccia una vita di valori borghesi.»
Un bohemien che ha scelto consapevolmente questa strada e che cerca di arrivare a tutti e che tutti arrivino a lui.
Quanto, invece, la musica entra a far parte delle tue poesie?
«Io con grande umiltà e difficoltà cerco di parlare ai sordi, quelli che non vogliono ascoltare, e la musica è il linguaggio universale di Dio. Fuori dalla sinfonia c’è il caos, la morte ed il vuoto.»
L’ultimo blues
Prendi la chitarra
bella L’Orleans
e non suonarla più.
Non c’è mai
abbastanza whisky
nelle nostre tasche
memorie lasche
ornate di fiaschi
tra i coltelli conficcati in bilico
su tavoli di legno sudicio
tenuti per il manico
infradiciati di sangue lurido
dal moribondo animo putrido.
Vecchia compagna
hai spezzato le mie corde,
ali di pezza in fiamme,
piume per tacchini
gonfi e goffi
dalle viscere putride
starnazzanti nel fango.
Al crocicchio
trovo il mio posto
e i compari della carità.
Cappello in mano
barcollo come una scimmia
per una moneta d’argento
da bermi,
o una pistola di fuoco
per incendiare
questo mio ultimo blues
per te.
Cosa ti aspetti nel tuo futuro da poeta?
«La guerra.»
Esoso e seducente al tempo stesso, ammalia e disincanta con i suoi versi.
Vuoi dirmi qualcosa di te o delle tue poesie che senti di dover far emergere?
«Che qualsiasi cosa vi abbiano insegnato a scuola o i “Maestri” dalle cattedre lucenti è falso.»
Un poeta che ha fatto della sua arte una ragione di vita.
Una poesia d’amore alla vita,
alla vita in
poesia.
Federica Auricchio