Ti stalkero perché ti amo troppo
«Lo stalking è una forma di agguato mentale in cui l’aggressore ripetutamente, inavvertitamente e violentemente irrompe nella vita della vittima.» (Lamber Royakkers)
Avevo sedici anni e a sedici anni parole come stalking e persecuzione sembrano non poter mai incrociare la tua vita. Poi è successo, ma non l’ho capito subito.
Lo stalking abbraccia abitudini comuni e diffuse. Dal canto mio posso dire di essere stata colpita da uno dei meno pericolosi: il “corteggiatore incompetente“. Opera stalking in genere di breve durata, risulta opprimente e invadente principalmente per “ignoranza” delle modalità relazionali, arreca un fastidio praticamente preterintenzionale.
Ignoranza dei rapporti umani, completa ignoranza di cosa sia l’amore, di come si gestisca una relazione e di cosa comporti.
Il mio stalker l’ho conosciuto durante il liceo, ma abbiamo instaurato una relazione d’amore solo quando ormai lui aveva preso la maturità e io avevo appena terminato il terzo anno.
All’inizio della relazione mi interrogavo spesso su cosa fosse lui per me prima di diventare il mio “fidanzato” e ogni volta non trovavo risposta. Fu facile per lui avvicinarmi, fui colpita da subito dal fascino del “ragazzo più grande”.
La patente, la macchina, l’essere portata al mare lontano, i luoghi belli da visitare, la prima indipendenza dai genitori. Un amore che però a guardarlo bene amore non era. Nel giro del primo mese i miei contatti con gli amici erano di gran lunga diminuiti. Lui mi rinfacciava di non dargli abbastanza attenzioni.
Complice anche l’estate, stavamo insieme sempre. A poco a poco fece in modo che tagliassi i ponti con tutti i miei amici. Delle mie amiche salvaguardò giusto un paio di rapporti, ma tenendomi a stretto controllo. A sedici anni pensi “ah è l’amore!” non pensi “questo è fuori!”.
L’occhio vigile di mia madre colse subito la poca affidabilità, essere negativo di questa persona, ma io non volli ascoltarla. Mi veniva controllato il telefono tutti i giorni, mi veniva sottratto, perché tanto ero con lui, non doveva servirmi. Io succube di questo rapporto non dicevo nulla.
Le poche volte in cui reagivo piangeva, piangeva così tanto spiegandomi che la sua era solo protezione per la nostra relazione che io mi sentivo in colpa. Con l’arrivo di settembre ricominciò la scuola e ricominciarono i corsi di danza. Mi accompagnava e mi veniva a prendere ogni giorno a scuola, nonostante avesse l’università.
Se alle tredici in punto non ero fuori l’istituto, lui entrava per cercarmi. Mi veniva a prendere fino in classe, per portarmi fuori con lui. Mi accompagnava a danza e aspettava per tutta la durata della lezione in macchina. Non potevo parlare con nessuno, per me doveva esistere solo lui.
A poco a poco mi sono svegliata dal mio sonno. Ho iniziato a dire i “no”, i “basta”. A poco a poco ho combattuto per la mia indipendenza.
Lo lasciai.
Mi telefonò, era furioso. Urlava, piangeva e intanto sentivo che era in macchina. Ad un certo punto le urla che sentivo provenire dal telefono le sentivo anche nell’aria, troppo vicine… Mi affacciai al balcone, era sotto casa mia. Minacciai di lanciargli un secchio d’acqua addosso se non se ne fosse andato.
Riuscii a farlo andare via promettendogli che mi sarei preparata e sarei scesa per andare da lui che mi aspettava in macchina. Era venerdì pomeriggio. Uscii di casa direttamente il lunedì seguente, per andare a scuola.
Da quel momento in poi la mia vita trascorse per circa un mese nell’ansia e nell’angoscia. Mia madre mi accompagnava e mi veniva a prendere a scuola. Era terrorizzata dall’idea che potessi incontrarlo lungo il tragitto. Mio padre faceva lo stesso per accompagnarmi alle lezioni di danza.
L’ultimo contatto con questa persona lo ebbi il giorno in cui compii diciassette anni. Mi chiamò con un numero che non conoscevo a mezzanotte per farmi gli auguri. Notando il mio totale disinteresse mi disse che se ero tanto annoiata era perché non lo amavo e allora potevo anche mettere giù. La mia risposta fu secca e liberatoria: “No, non ti amo. Buonanotte”.
Da allora non l’ho più sentito.
Sono un caso fortunato, sono una persona che ha potuto liberarsi del suo persecutore senza che le fossero inflitte violenze. Ciò nonostante ho convissuto con la paura di parlare con amici, conoscenti e sconosciuti. Ho convissuto con la paura di essere perennemente schiava, vittima di qualcuno. Sotto una campana, ma non di vetro, d’acciaio. Perché il vetro è trasparente.
Questa è la mia storia e la offro a voi tutti, perché sappiate che chi si spaccia per il grande amore, per l’amore della vita, ma prova a relegarvi in casa, a non farvi vedere il colore del cielo e la luce del sole, non è poi questo amore così grande.
È solo una persona piccola, che ha bisogno di aiuti psicologici che voi non potete dargli.
Francesca Caianiello