Peeping Tom: il voyeur belga che sbircia nelle emozioni a passo di danza
Peeping Tom significa voyeur, “guardone”, e una volta riemersi dall’abisso surreale di Le Salon – secondo capitolo della sublime trilogia montata dalla compagnia belga – è facile associare il nome del collettivo artistico alla ricercatezza delle loro visionarie creazioni.
A metà strada tra Le Jardin (2002) e Le Sous Sol (2007), questa pièce di teatro totale, che ha viaggiato tra i quattro angoli del mondo, è un occhio invadente che spia in un opulento interno domestico, dove l’inconscio di una famiglia borghese viene scrutato in modo ossessivo e atrocemente vero, sviscerando le dinamiche relazionali attraverso una fisicità emotiva che unisce i corpi simbioticamente, li spezza e li riplasma, in un flusso continuo di danza, parola e opera.
Gabriella Carizzo (ballerina e coreografia italo-argentina, nonché mente creativa delle produzioni di fama internazionale portate in scena) ha cercato di raccontare l’involuzione psicologica e materiale di un nucleo familiare sventrato da precarietà e ricordi molesti, partendo da bozzetti familiari riconoscibili e gesti banali in cui è facile immedesimarsi, inquadrandoli però da prospettive inedite e filtrandoli attraverso una narrazione impietosamente sincera.
L’immagine iniziale di due anziani paralizzati su poltrone in velluto sbiadito, residui umani imbottiti di pillole e schiaffeggiati dal cinico, giovane figlio, ricorda gli scenari post-apocalittici tipicamente beckettiani, in cui persino i legami biologici (oltre al linguaggio) si svuotano del senso finora conosciuto – come accade in quel deserto di passioni tristi raccontato in Finale di Partita.
Si procede poi per inquadrature, per visioni montate dalle organiche movenze dei soggetti scenici e accompagnate dalle note decadenti del mezzosoprano Eurudike de Beul: il corpo epilettico di Franck Chartier si snoda in acrobatiche movenze da una quinta all’altra, scivolando sulla scena come una sagoma senza spigoli con una forma flessuosa, spinta da un impulso primitivo e da una necessità quasi animale.
Segue un ipnotico quadretto familiare itinerante, una stupenda triade di corpi danzanti con in grembo la loro creatura (figlia della coppia nella vita reale, tra l’altro) incastrati in un groviglio di arti e sentimenti tenuto in miracoloso equilibrio dalla forza magnetica di un bacio.
Un personaggio solitario, senza un ruolo chiaro nella gerarchia casalinga (Samuel Lefeuvre), irrompe nel salotto con spettacolari intermezzi di teatrodanza allo stato puro: volteggia sull’acqua a corpo nudo e si lascia cavalcare come una morbida onda dal virtuoso scivolare di una tavola da surf.
Con quel tocco di assurda comicità – nel goffo tentativo di suicidarsi o nel bizzarro atto di tagliarsi i peli pubici – il vecchio padre di famiglia (Simon Versnel), invece, dà una voce alla parola sotterranea del subconscio, conversando sfacciatamente con i membri erranti di questo microcosmo fantasmatico in cui l’incubo si confonde con l’ordinario.
I dialoghi sono ridotti quasi all’osso, mischiando occasionalmente il francese con l’inglese, mentre la regia, quasi cinematografica, è interamente scandita dalla grammatica inventata di corpi muti, eppure urlanti.
Peeping Tom è uno di quei rarissimi casi di efficacia drammaturgica che non perde colpi neanche attraverso il piccolo schermo, mischiando suggestione e lucido estraniamento in un’intima ricerca emotiva che scava senza vergogna nella fragilità umana. E questo spettacolo è una ballata dei sentimenti anatomizzati attraverso il linguaggio scomposto dei danza(t)tori; uno storytelling che sa raccontare tutto senza dire troppo, confermandosi una realtà teatrale avanguardista pronta a stupire le platee (anche virtuali) di tutto il mondo.
Francesca Eboli
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