Émile Zola: il senso del reale come corollario della conoscibilità del mondo
Émile Zola, affascinato dal metodo scientifico, convinto che il romanziere sia un osservatore e uno sperimentatore, prosegue il sogno di una conoscenza totale del soggetto umano, di cui il romanzo deve essere lo strumento. L’apprendimento di forme nuove adeguate alla scoperta dei mondi nuovi a cui si mira.
Nato a Parigi nel 1840, figlio di un ingegnere veneziano incaricato dei lavori del canale di Aix-en-Provence. A soli sette anni egli perde suo padre. Comincia allora un periodo di grande difficoltà, a volte sull’orlo della miseria, per sé e sua madre; è figlio unico e destinatario di una borsa studio, ma si sente oppresso in un collegio dove compie studi di non grande livello, ma dove incontra Paul Cézanne, il quale sarà a lungo suo amico.
Nel 1858, a diciotto anni, raggiunge la madre a Parigi, dove tenta di fare riconoscere i propri diritti dalla società del canale di Aix. Perde il processo nel 1859; è l’anno in cui Zola è respinto all’esame di maturità. Questo fallimento lo induce ad abbandonare gli studi alla cerca di un lavoro: per tre anni non troverà nulla e vivrà nella più nera miseria.
Scrive, tuttavia, già molte poesie, racconti, segnati della nostalgia di una Provenza idealizzata e di un romanticismo che presto tenterà di sopprimere nella propria vita interiore; partecipa ai seminari di amici pittori e si avvicina ai repubblicani oppositori della politica del Secondo impero.
Nel 1862, trova una modesta occupazione presso la libreria Hachette, dove resterà fino al 1866. In pochi mesi diventa capo della pubblicità e annoda fitte relazioni con gli “autori di casa Hachette”, tra i quali si annovera il nome di Hippolyte Taine.
Fin dal 1863, Zola collabora a vari giornali; la sua attività di giornalista occuperà sempre un posto di rilievo nella sua vita. A partire dal 1866, tiene sull’Événement la cronaca letteraria ed anche una d’arte. Collabora a l’Illustration, con alcuni racconti. Scrive in un giornale, all’epoca di sinistra, Le Figaro, nel Globe, nel Gaulois e ne La Libre Pensée. Nel 1871, è giornalista parlamentare alla Cloche e collaboratore regolare del Sémaphore di Marsiglia e del Messager de l’Europe, mensile nel quale uscirà nel 1878 Romanzieri contemporanei e nel 1879 L’arte poetica del movimento naturalista e Il romanzo sperimentale.
Nel 1867, pubblica il suo primo romanzo, Thérèse Raquin, mentre inizia la grande e affascinante storia di una famiglia (venti volumi, la cui scrittura gli richiederà venticinque anni). Zola invia Thérèse Raquin, tra gli altri, a Taine e Sainte-Beuve. Taine risponde con una certa solerzia, accostando Zola a Shakespeare e Dickens, lodando un romanzo in cui si rivela «un vero artista, un osservatore serio che non cerca consensi ma la verità», elaborando un encomiabile studio psico-fisiologico.
Nel momento in cui Zola comincia il suo ciclo romanzesco, vasto affresco in venti volumi della “storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo impero”, ovvero il famoso ciclo dei Rougon-Macquart, prende in considerazione due testi essenziali per la struttura della sua scrittura: La fortuna dei Rougon (1870), ed Il romanzo sperimentale (uscito nel 1880). Quest’ultimo è da ritenere il manifesto del naturalismo, in cui troviamo ben presente il tratto hegeliano considerato anche da Taine: il logos dissimulato nei fenomeni e che li rende intelligibili, che elude i sensi e a cui non si accede senza l’ausilio della ragione. A significare che la estetica è scientifica.
Taine l’assimila a una botanica: le opere d’arte si trovano in un rapporto alimentare con il loro sostrato, come con i terreni le piante. Ma la sostanza che succhiata dal profondo riempie di sé l’arte, conferendole senso, era il midollo corroborante e dialettico del mondo. Tutto ciò lo ritroviamo nelle pagine naturaliste di Zola.
Lo scrittore naturalista osserva e ama definirsi osservatore.
Osservare non è semplicemente guardare, ma armare gli occhi di un pensiero, avere un assunto da saggiare: un guardare ragionando. Lo stile si fa limpido che le parole sembrano arretrare per lasciare il posto alle cose e come direbbe Maupassant: il modo unico, assoluto, di esprimere una cosa in tutto il suo colore e intensità. Inoltre, si potrebbe parlare di sintonie tra naturalismo e impressionismo, lo scrittore come il pittore dipinge con un ampio pennello gli affreschi dei mondi reali che fanno da sfondo e nutre, disegna le passioni con il pennello sottile dei suoi personaggi.
Non è fotografo della realtà, un ma regista -allora il cinema non esisteva- poiché può spingere l’impersonalità al punto di mostrare tutto soltanto dall’esterno, come se a registrare l’azione fosse una cinepresa che non può leggere nelle menti, ma nel capolavoro romanzesco dell’Assomoir non mancano episodi e singoli pezzi di bravura in cui l’autore funziona come operatore di una distanza ironica e emerge la componente del sogno anti litteram di Freud, durante un incubo della protagonista Gervaise, in cui riusciamo quasi a percepire le sue sensazioni non in maniera distaccata. L’Assomoir è «il primo romanzo sul popolo, che non menta e che abbia l’odore del popolo» come sostiene Zola nella celebre prefazione.
Anche grazie a questo scrittore, il corpo e i sensi sono stati al centro di tanta letteratura del Novecento. Questo romanzo resta anche un puro lavoro filologico, interessato alla verdeur della lingua popolare, all’aspro vigore dell’argot, il gergo.
La novità dell’Assomoir è la delega narrativa, realizzata in geniale economia: da un lato grazie al ricorso sistematico al soggetto impersonale o collettivo (la strada, il caseggiato, il gruppo); dall’altro, grazie all’indiretto libero. Da questo punto di vista, Verga non ha inventato nulla: la tecnica dei Malavoglia è già tutta nell’Assomoir.
Qui classi sociali e spazi urbani hanno tenuta stagna: l’ambientazione centripeta è figura di una società immobile. La condizione operaia è reclusione e condanna e la materia si fa costantemente fangosa o escrementizia.
Non si contano, nel testo, le parole e i sintagmi che rinviano al campo semantico del sudiciume, del grigiore livido, piovoso, fuligginoso. I luoghi di Gervaise appaiono come un piano inclinato, su cui inesorabilmente la protagonista scivola verso la rovina.
Marianna Allocca
Disegno di Enza Galiano
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