Pier Paolo Pasolini: il cinema di poesia
Un intellettuale dalla multiforme esperienza artistica mise in guardia la società italiana dai rischi che la rivoluzione borghese in atto nell’Italia del boom economico avrebbe comportato.
Pasolini, oltre alla sua sensibile penna, ha dato prova del suo talento di regista in un’epoca ancora retrograda e bigotta, se non acerba nella comprensione e accettazione degli argumenta esplicati nella sua filmografia.
A Roma nel 1950 Pasolini ebbe un più diretto contatto con il mondo del cinema, dapprima come comparsa a Cinecittà, poi, una volta ripresa l’attività letteraria e giornalistica, come sceneggiatore. Parliamo di un’esperienza senz’altro formativa e molto determinante per un Pasolini disposto a ricercare nuovi modelli espressivi, nuove forme di comunicazione.
Dopo un iniziale accordo con la Cineriz, casa di produzione fondata da Fellini, Rizzoli e Fracassi, per portare sullo schermo il soggetto di Accattone, il progetto non fu concretizzato a causa dell’insoddisfacente risultato dei provini girati dall’autore.
Più tardi, grazie al coraggio del produttore Alfredo Bini e ai finanziamenti di Cino Del Duca, finalmente nel 1961 il primo film di Pasolini divenne realtà. Detto ciò, riprendendo il discorso già avviato nel 1955 con il romanzo Ragazzi di vita, Pasolini rappresentò sullo schermo il mondo del sottoproletariato romano, quello della povertà senza via d’uscita, della diversità vissuta come colpa, la rete codificata di emarginati e piccoli delinquenti, di puttane e di protettori.
Una classe sociale oggetto di quel genocidio culturale che l’autore imputava all’imposizione del modello borghese, diretta conseguenza degli anni del miracolo economico, della corsa al benessere che inevitabilmente lasciava dietro di sé delle vittime: omologazione culturale e sociale di massa era il pericolo principale da cui Pasolini ci metteva in guardia già negli anni ’60.
“Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà”, affermò in un’intervista alla rivista Filmcritica, ma più che all’esperienza neorealista, il cinema di Pasolini già con Accattone si avvicina piuttosto all’epoca del cinema muto, quando la forza comunicativa del mezzo era tutta nelle immagini, facendo propria quindi l’utopia del cinema come linguaggio universale ed universalmente comprensibile, però l’arte del cinema non è solo una questione di immagini, è soprattutto una questione di prosodia e metrica nel collegamento tra le immagini, eseguito tramite il montaggio.
Parliamo di un cinema di poesia, così definito dall’autore stesso, in cui si va a sostituire la prosa con la metrica della poesia, utilizzando, a livello tecnico, la macchina a mano, le riprese negli ambienti esterni con luce naturale, il ricorso a lunghi piani sequenza e soprattutto un modo nuovo di utilizzare le giunte nel montaggio, un modo fondato sulla nozione del ritmema, che prima veniva individuato come marca del carattere stilistico-retorico del cinema in quanto linguaggio audio-visivo, viene adesso pensato come modalità di definizione di un ordine più complesso di significazione di carattere spazio-temporale, che concerne il visibile e il non visibile e i loro rapporti. Un’entità anfibia di spazio-tempo.
Accattone e Mamma Roma, due esempi sublimi di un cinema mai visto prima dove ad essere poetici non sono i contenuti, ma lo stile che rende tale anche contenuti umili e bassi e li eleva ad una dimensione sacrale, come il giovane nel film Mamma Roma legato su un letto in prigione, raffigurato come il Cristo morto del Mantegna.
Alla luce del genio pasoliniano, va ricordato Comizi d’amore, realizzato sempre nel 1963, è un tipico film-inchiesta, nel quale Pasolini, armato di microfono e registratore, interroga persone d’ogni livello sociale in giro per l’Italia su temi tabù come l’amore e la sessualità.
Il risultato è un meraviglioso spaccato antropologico da cui emerge un quadro desolante sulla conoscenza degli italiani dell’epoca su tali argomenti.
Il 1964 è l’anno di quelli che molti considerano il suo capolavoro, Il Vangelo secondo Matteo, un film che al solito suscitò polemiche su vasta scala non tanto da parte del mondo cattolico, che anzi in larga maggioranza apprezzò, quanto dalla sinistra che non poteva concepire una tale operazione da parte di un autore che si professava marxista.
Chiaramente l’intento di Pasolini non era certo quello di realizzare un’agiografia su Cristo o sulla spiritualità, quanto quello di sottolinearne l’essenza umana e la portata rivoluzionaria nel suo tempo.
Ma l’opera forse più autentica e compiuta del Pasolini regista, quella cui il concetto di cinema di poesia meglio si addice, è certamente Uccellacci e uccellini, realizzato nel 1965 ed interpretato da Totò e Ninetto Davoli. Aboliti il realismo e la verosimiglianza del racconto, il film segue il cammino dei due protagonisti lungo desolate strade della periferia e delle campagne attorno a Roma.
Nel loro girovagare verso una meta ignota si susseguono eventi ed incontri surreali, in cui incalza sempre di più un forte simbolismo dal quale traspare il pessimismo dell’autore nei riguardi della società. La fase successiva del suo cinema è la cosiddetta Trilogia della vita, che comprende Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1973), tre grandi classici della letteratura licenziosa che Pasolini rappresenta come un unico grande inno alla sacralità dei sensi, alle gioie corporee svincolate dalle costrizioni e dai vincoli culturali e sociali.
Amore e sessualità, gioco ed ironia che al tempo vengono letti come l’espressione più triviale della perversione del Pasolini uomo, per non parlare del “cinema della crudeltà” che è Salò.
Lo spettatore “non è colui che non comprende, che si scandalizza, ma è colui che comprende, che simpatizza, che ama, che si appassiona: tale spettatore è altrettanto scandaloso che l’autore”. Il profeta indiscusso Pier Paolo Pasolini.
Marianna Allocca
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