Il mondo transgender sbarca alle Olimpiadi con Laurel Hubbard
Le Olimpiadi 2020 di Tokyo saranno una grande novità per tutti: per la prima volta nella storia, un’atleta transgender parteciperà nella categoria femminile di sollevamento pesi.
Il nome di Laurel Hubbard, donna trans neozelandese, sarà a lungo ricordato da tutti noi.
Lei, infatti, sarà la prima donna transessuale a partecipare alle Olimpiadi nella categoria femminile.
Senza dubbio un importantissimo traguardo per il mondo transgender, ma che ha – inevitabilmente – sollevato un enorme polverone sull’atleta e sul tema spinoso del gender all’interno dello sport.
All’interno della stessa comunità delle atlete di sollevamento pesi, infatti, si sono alzate diverse voci di protesta e di indignazione riguardo il fatto che, pur essendo diventata donna, Laurel Hubbard avrebbe sicuramente avuto un certo vantaggio, in quanto la sua costituzione corporea non sarebbe stata la stessa di una persona nata biologicamente donna.
Le donne trans, infatti, durante la transizione sono sottoposte a diversi trattamenti ormonali per far sì che l’ormone prettamente maschile, il testosterone, venga considerevolmente ridotto. Nel caso dell’atleta transgender, però, le proteste insistono sul fatto che la competizione non sarebbe equa a prescindere dato che i livelli di testosterone della donna, nonostante rientrino nei limiti stabiliti dal Comitato olimpico per essere ammessi nella categoria femminile, sono comunque cinque volte superiori a quelli di una persona nata biologicamente donna.
Le donne cis, allora, si sentono svantaggiate in partenza dalla presenza di una donna trans che apparentemente risulta biologicamente più forte.
Ma andiamo ad analizzare il fattore scientifico prima di dare credito a quelle che potrebbero rivelarsi delle semplici speculazioni dettate dall’indignazione personale.
L’articolo Atleti transgender e sport al femminile di ProjectInvictus ci offre un’analisi scientifica estremamente dettagliata su quelle che sono le ovvie e naturali differenze fisiche, biologiche e ormonali che sussistono tra uomo e donna.
Senza entrare troppo nel merito della questione scientifica, ci basti sapere che le differenze tra uomo e donna non stanno solo nella differenza d’altezza e di peso tra i due sessi – che pure hanno il loro peso nella questione – ma anche e soprattutto nella “situazione” ormonale.
Il testosterone, infatti, ormone prettamente maschile e presente solo in quantità assai ridotte nel corpo femminile, «influenza anche l’umore ed è in grado di renderci più o meno aggressivi con conseguenze anche sull’allenamento o sulla prestazione atletica da questo punto di vista.»
Nel caso di una donna transgender, allora, affinché la transizione sia completa e corretta dal punto di vista biologico, sono necessari diversi trattamenti ormonali per far sì che i livelli di testosterone vengano ridotti fino a raggiungere il livello giusto.
A questo proposito, dall’articolo succitato veniamo a conoscenza di uno dei tanti studi che affrontano quest’argomento delicato. Da tale studio è emerso che «dopo 2 anni di trattamento ormonale le differenze [tra donne trans e persone nate biologicamente donna] si appiattiscono e/o spariscono su alcuni esercizi».
Nell’arco di questi due anni, quindi, è più che lecito pensare che le gare atletiche possano essere ineguali proprio perché le donne trans non hanno ancora completato il loro percorso di transizione e di trattamenti ormonali.
Nel caso specifico di Laurel Hubbard, però, qualsiasi protesta che si poggi sul fattore ormonale non ha motivo – non del tutto, almeno – di sussistere in quanto, se è vero che dopo due anni di trattamento ormonale le differenze si appiattiscono e/o spariscono, nel caso dell’atleta trans in questione ne sono passati ben otto di anni da quando ha deciso di cambiare sesso.
La questione, però, è più complicata e spinosa di così e, partendo da questioni scientifiche, non può che portare a questioni di gender e di identità sessuale, argomento molto dibattuto nell’ultimo periodo e sul quale bisogna fare attenzione per non cadere nella trappola della superficialità e della leggerezza.
Un tale argomento di sicuro non può essere trattato con superficialità e leggerezza proprio perché in ballo non ci sono solamente questioni biologiche e scientifiche, ma anche questioni culturali, identitarie che, se trattate nel modo sbagliato, potrebbero giustamente offendere una comunità intera.
Ecco perché sulla questione si è espresso anche il direttore del comitato olimpico della Nuova Zelanda, Kereyn Smith, che su Repubblica afferma: «Sappiamo che quello dell’identità di genere nello sport è un tema molto delicato e complesso, che richiede di trovare il giusto equilibrio tra diritti umani e equità sul campo di gioco. Ma come squadra, abbiamo una forte cultura dell’ospitalità e dell’inclusione e abbiamo rispetto per tutti. Per questo daremo il nostro appoggio a tutti gli atleti neozelandesi».
Quando si tratta di identità di genere e, soprattutto, quando questa viene a stretto contatto con la competitività che uno sport può creare, è impossibile non incappare in polemiche. La fonte dei conflitti, spesso e volentieri, non è la cattiveria o la mala intenzione, bensì il fraintendimento, o meglio l’idea che certe persone si fanno di un certo argomento. Idea che, ancora più spesso è sbagliata poiché nasce da un’indignazione personale e non oggettivamente comprovata.
Ad oggi non c’è ancora uno studio che dia la certezza assoluta e scientifica che un’atleta transgender sia più o meno forte di un’altra atleta a causa della sua costituzione fisica e del suo “pacchetto” ormonale, ecco perché ogni protesta (da ambo i lati) dev’essere presa con le pinze, proprio perché non si può ancora basare su fatti assolutamente certi.
Anna Illiano
Vedi anche: Torlball e Goalball: lo sport che unisce
Articolo che indaga ogni aspetto del tema, passando da quello scientifico a quello legato all’identità di genere. Ho l’impressione che molto dipenda dallo svolgimento della competizione e credo che un eventuale vittoria possa scatenare delle critiche ancora più accese.