Eutanasia come gesto estremo di libertà
“Eutanasia” è un prestito dal greco εὔ-θάνατος che, tradotto letteralmente, significa “buona morte”.
Con questo lemma si intende il procurare la morte volontaria e anticipata ad un individuo che lo richieda in ragione di insostenibili e permanenti problemi di salute.
Esistono due condotte possibili: da un lato, l’eutanasia attiva che prevede la somministrazione da parte del medico di farmaci che conducono alla morte; dall’altro, l’eutanasia passiva che consiste nella sospensione delle terapie mediche necessarie alla sopravvivenza dell’individuo.
Non si tratta assolutamente di un potere di vita o di morte indiscriminato o di un via libera al suicidio fai da te, bensì di un trattamento utilizzabile solo in situazioni estreme, dinanzi a casi patologici irreversibili; insomma circostanze in cui la vita del malato non solo è fortemente condizionata ma quasi completamente assorbita dalle sofferenze causate dal morbo.
Questa pratica è stata ampiamente discussa e criticata. Ciò non stupisce considerando le questioni etiche e religiose che ne scaturiscono, soprattutto in un paese profondamente cattolico come il nostro.
Papa Bergoglio – nonostante il suo ruolo, uno degli ecclesiastici meno intransigenti – ha più volte fermamente sottolineato che, secondo i dogmi della chiesa, nessuno ha il diritto di porre fine ante tempo alla vita umana e che per tanto una simile richiesta equivarrebbe ad un grave atto criminoso verso Dio e verso l’esistenza stessa. Naturalmente, non ci si potrebbe aspettare affermazioni diverse dal capo di un’organizzazione secolare da sempre dedita a difendere i suoi assiomi ancestrali; pensiamo ad altri temi caldi come l’aborto.
Dal canto suo, la società civile internazionale ha ormai sviluppato una visione ben diversa delle cose e, a sentire che vento tira nel resto del mondo, sembrerebbe che la strada da percorrere si stia delineando in maniera sempre più netta. Tra le posizioni tradizionaliste di chi vorrebbe mantenere l’eutanasia un tabù e chi, invece, vorrebbe estendere anche a questo ambito il diritto di scelta dell’uomo; sembra che quest’ultimo assunto si stia imponendo.
Infatti aumentano i paesi che hanno aggiornato le proprie fonti normative, contemplando per alcuni casi particolari l’opportunità di ricorrere all’eutanasia. La pratica è ritenuta legale in Canada, Colombia, Cina (bizzarramente all’avanguardia da questo punto di vista nella concessione di diritti ai suoi cittadini) nonché in alcuni stati e regioni di USA e Australia. Di recente si è aggiunta alla lista anche La Nuova Zelanda.
Nel vecchio continente sono pochi i paesi ad essersi mobilitati. Spesso la giurisprudenza in questo ambito è vaga e parziale: in Danimarca, Norvegia, Repubblica Ceca e Ungheria il malato può rifiutare l’accanimento terapeutico o le cure fornitegli; qualcosa di simile accade anche in Francia, Germania e Inghilterra, dove è concessa soltanto l’eutanasia passiva. Il Portogallo era intenzionato a legittimare “la dolce morte”, ma la corte costituzionale ha rifiutato la proposta. Invece Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Spagna (quest’ultima proprio nel mese di marzo corrente anno) l’hanno legalizzata.
Un caso particolare e legato a doppio filo al nostro paese è quello della Svizzera. Qui non esiste una vera e propria legislazione sul tema, ma viene praticato il suicidio assistito che è leggermente diverso dall’eutanasia perché prevede che la persona malata si autosomministri il farmaco letale, mentre il sanitario si limita a preparare la sostanza. Sembrerebbe essersi creato una sorta di “turismo della morte” – espressione macabra ma che rende l’idea dell’assurdità di una simile situazione – per cui il nostro vicino alpino si è tramutato in meta desiderata da tutti i cittadini comunitari affetti da malattie terminali e provenienti da paesi che non prevedono questo diritto.
In Svizzera pullulano infatti associazioni e organizzazioni (come EXIT o Dignitas) pronte a colmare questi vuoti legislativi prendendo in affidamento gli incurabili che hanno deciso di intraprendere questo cammino. L’UST (Ufficio Federale di statistica svizzero) ha calcolato nel 2014 un numero di 742 casi di suicidio assistito in Svizzera. Numero che, dalle proiezioni degli anni precedenti, appariva in netta crescita.
Tra i paesi che hanno fatto ricorso alla possibilità di aggirare le proprie leggi nazionali valicando il confine svizzero, figura ovviamente la nostra Italia. Da noi non esiste alcuna legge in favore dell’eutanasia o del suicidio assistito, viste le pesanti ingerenze in politica sia del pensiero cattolico sia di un diffuso e destrorso pensiero passatista e antiriformista.
Nel Belpaese dunque, la legittimazione del principio di autodeterminazione sembra una meta ancora lontana. Ma questo non è buon un motivo per arrendersi. L’Associazione Luca Coscioni nelle figure di Mina Welby e Marco Cappato si è contraddistinta negli ultimi anni per aver dato peso pubblico al dibattito sul tema, altrimenti ibernato. Ha destato scalpore la decisione dell’Associazione di accompagnare oltralpe alcuni malati terminali per permettere loro di usufruire del suicidio assistito. In questo senso, iconica è la vicende di DJ Fabo che, reso tetraplegico da un terribile incidente, è riuscito a porre fine alla sua agonia in Svizzera grazie all’intercessione di Cappato.
Iniziative come quelle appoggiate dall’Associazione Coscioni sarebbero state punibili per legge in Italia, ma fortunatamente finora gli imputati sono risultati assolti dai capi d’accusa. Ciò è riaccaduto nello scorso mese in coincidenza con la sentenza su Davide Trentini, altro lungodegente scortato in una clinica svizzera da Cappato. Le due figure più note dell’Associazione si sono dette soddisfatte di questa conclusione e hanno ancora una volta incoraggiato la realizzazione di una legge sul fine vita, tant’è che quest’anno daranno il via ad una nuova mobilitazione nelle piazze per raccogliere firme referendarie per la proposta di legge popolare “Eutanasia legale”.
Che sia la volta buona? Piuttosto che perseverare nell’ipocrisia e nella meschinità non sarebbe meglio semplificare il tutto legalizzando un procedimento che di fatto si compie clandestinamente altrove? È giusto, dall’alto delle proprie ideologie e della propria florida – o comunque sia non invalidante – salute fisica, giudicare e perpetrare le sofferenze di individui già stremati? Se la pace eterna è l’unico sollievo per queste persone – che non si dimentichi, sono capaci di intendere e di volere – assicurare loro una fine dignitosa è l’unico vero atto di “misericordia”.
Giusy D’Elia
Vedi anche: Legge contro l’omofobia in Svizzera: gli omofobi come i razzisti