Legge Zan, free zone e altre contraddizioni UE in materia di diritti LGBT
Negli ultimi anni, anche a causa del defilarsi dell’amministrazione statunitense di Trump dal terreno delle battaglie civili, l’Unione Europea era stata chiamata a sobbarcarsi il ruolo di protettrice dei diritti e dell’uguaglianza.
Oggi invece, con la vittoria di Joe Biden, gli States si accingono a ritornare alla guida del cosiddetto “Mondo libero”.
Ma come valutare questi anni di maggior centralità – da questo punto di vista – dell’Unione?
Di certo è impossibile dare un giudizio unitario.
Dal 2016 in poi a seguito delle tante manifestazioni e delle continue richieste riformiste da parte della popolazione, molti paesi del Vecchio Continente hanno aggiornato le loro norme in materia di diritti LGBT.
Nel 2017 Germania e Finlandia hanno legalizzato i matrimoni tra coppie omosessuali e la loro possibilità di adottare figli. Sulla medesima falsariga ha agito l’Austria. Si può dire che un po’ ovunque entro i confini dell’Unione siano state promulgate una serie di leggi contro la discriminazione di genere.
L’Italia (spesso in colpevole ritardo su questi argomenti) ha introdotto quantomeno il riconoscimento legale delle unioni civili, seguendo a ruota la scelta della Grecia avvenuta nel 2015. Oltre alle spinte sovraniste e xenofobe – nel senso più ampio di odio per chiunque sia considerato diverso – anche la centralità della chiesa cattolica nello stato italiano ha contribuito a rallentare il processo di modernizzazione. Papa Francesco si è mostrato più aperto nell’approccio a tali problematiche, però le sue parole sono sembrate spesso divergenti rispetto al pensiero maggioritario della curia e per tanto non sono mancati rimaneggiamenti e modifiche ad alcune sue dichiarazioni.
Insomma, visto che in Italia sono state persino fondate campagne politiche sulla battaglia contro “l’altro”, era difficile aspettarsi che il Belpaese si ponesse a capo della “liberalizzazione”. Un altro caso che non depone a nostro favore è lo stallo in cui si trova la legge Zan, approvata dalla camera in data 20 novembre 2020. Le legge prende nome dal suo principale ispiratore e predispone «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità».
Dopo una prima (movimentata) conferma parlamentare, il testo è stato messo da parte tramite una serie di espedienti dei gruppi politici più conservatori che sono riusciti a far rimandare ripetutamente il suo passaggio per il voto dei senatori. La questione è tornata alla luce nel mese di marzo, dopo che era stata resa pubblica un’indagine sull’aggressione di una coppia omosessuale all’interno di una fermata della metropolitana di Roma.
Dunque, eccoci costretti a fare i conti con la realtà. Possiamo davvero dare un parere positivo rispetto ai progressi compiuti negli ultimi anni su questi topics? Come accade per tanti altri aspetti, l’Unione non procede in maniera unitaria e armonica, ma si scinde tra chi procede a tambur battente e chi rema contro l’equità.
Il gruppo di Visegrad – un’alleanza interna all’Unione risalente al 1991 e costituita da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – offre numerosi esempi non proprio virtuosi. L’Ungheria di Orbàn – vero simbolo della frangia passatista – dopo aver fatto passi in avanti nelle ultime due decadi (dal riconoscimento delle unioni civili ad alcune leggi base contro la discriminazione sull’orientamento sessuale) sta tornando sulla vecchia strada. Basti pensare che dal 3 aprile 2020 in Ungheria non è stato più possibile per gli individui transgender cambiare il proprio genere giuridico, cosa fino ad allora consentita. Risale sempre all’anno scorso la delibera di incostituzionalità delle adozioni da parte di coppie omosessuali.
Un altro paese molto arretrato in ambito di battaglie civili è la Polonia di Andrzej Duda, esponente di spicco nonché presidente del partito al governo, Diritto e giustizia. Ironicamente, mai nome fu meno azzeccato per uno schieramento di questo tipo. Lo stato polacco è ancora sprovvisto di leggi a favore delle coppie di fatto e della convivenza tra persone dello stesso sesso; ha anzi adottato una serie di provvedimenti illiberali.
Sospinte da questo clima di odio e di chiusura, alcune municipalità polacche si sono autodefinite “zone lgbt free”: località ostili all’ideologia LGBT che impediscano la realizzazione di eventi a sostegno della comunità discriminata.
L’Unione Europea, dal canto suo, ha già condannato queste istituzioni arbitrarie attraverso la voce autorevole del Parlamento Europeo e bloccando, nel 2020, il finanziamento tramite fondi strutturali per i territori aderenti a questa retrograda iniziativa. Purtroppo, nonostante il pugno duro dell’UE, queste zone dalla particolare (e discutibile) giurisdizione ancora reggono in piedi. Forte è il dissenso dell’opinione pubblica.
La difesa della Polonia (e di altri paesi rimasti un passo indietro) si fonda sulla fantomatica necessità di conservare e proteggere gli antichi valori della famiglia tradizionale. In realtà, movimenti retrivi come Diritto e giustizia sfruttano idee così datate e radicate per attirare a sé il consenso popolare.
Ancora una volta, l’Unione Europea si rivela un gran bel sogno. Attenta e presente ad esprimersi in materia di diritti e doveri, ma incapace di imporre risoluzioni severe e stringenti. Forse è proprio questo il limite che per ora non permette all’Unione di raggiungere l’importanza di altre superpotenze intercontinentali e, soprattutto, di marciare compatta e unita nelle questioni che le si pongono lungo il cammino.
Giusy D’Elia
Vedi anche: Ddl Zan? Sì, se ti preoccupa è perché sei omofobo