I borghi fantasma della Campania: viaggio tra le geografie dell’abbandono
I borghi fantasma della Campania vanno esplorati in punta di piedi, come tutti i luoghi dimenticati pregni di una bellezza fiera e resiliente.
Hanno resistito a sciagure e cataclismi con una caparbietà miracolosa, facendosi attraversare ancora oggi da chi possiede il sesto senso di lasciarsi abitare dal passato.
I borghi fantasma sono i luoghi abbandonati per antonomasia. Quelli che possiedono la prodigiosa capacità di raccontare l’assenza facendoci vivere ricordi che non ci appartengono, ma che sembrano risvegliarsi, assopiti, dalle pieghe di anime altre, vagabonde e ormai disperse. Anime che respirano nel rame opaco di utensili rotti, nelle tinte aranciate di mura scrostate dall’umidità e nelle forme sgraziate di tetti asimmetrici, crollati dopo un sisma violento e neanche troppo antico.
Vagando tra le valli colme di ricordi, taciturne e dentellate dal tempo, si può accarezzare lo spirito di un luogo che è rimasto intatto, grezzo, senza una sola voce a disturbare la conversazione muta tra il forestiero e la terra battuta dal silenzio. Scopriamone alcuni.
Partiamo dal borgo abbandonato per eccellenza: Apice Vecchia, ribattezzata “La Pompei del Novecento”. Si tratta di un posto dall’aura mitologica situato nel cuore del Sannio, a pochi chilometri da Benevento, su cui si è tanto scritto e inventato, romantizzando aneddoti e ritrovamenti di stravaganti oggetti d’epoca nel corso dei secoli.
Il battito di questo luogo è stato arrestato per ben due volte – con il sisma del lontano agosto del 1962 e quello ancor più devastante dell’80, che ha raso al suolo l’Irpinia – fino all’esodo definitivo dei suoi affezionati cittadini, che ha lasciato il paese convivere con i resti scoloriti di una vita congelata, privata del suo soffio vitale.
La placida valle del Calore Irpino è sorvegliata dall’ austero castello normanno dell’Ettore, centro nevralgico arroccato sul punto più alto della collina, in cui converge l’intero assetto viario del borgo. L’edificio ospita collezioni di reperti archeologici locali e una biblioteca comunale, mentre i suoi imponenti porticati, un tempo scuderie nobiliari, sono oggi i relitti di logore botteghe artigianali.
È consigliato perdersi tra i pergolati di glicine e le mura antiche abbracciate da fusti d’edera rigogliosa, spiare tra le grate di cancelli semichiusi e fare amicizia con la pigrizia dei gatti apicesi.
Ci spostiamo nel Cilento con San Severino di Centola, un presepe spettrale in bilico su uno sperone roccioso della gola del Diavolo, uno strapiombo mozzafiato disegnato dal letto del fiume Mingardo. Con il suo profilo tetro di torri fortificate, è servito da baluardo difensivo dai tempi dei longobardi contro le incursioni di bizantini, saraceni ed aragonesi, rappresentando un espediente militare perfettamente congegnato.
Il villaggio avrebbe preso nome da un’illustre dinastia del principato di Salerno, ospitando i suoi abitanti fino al secondo dopoguerra, quando anche le 400 anime superstiti in quel luogo ormai dimenticato avrebbero scelto la più agevole vita ai piedi della valle sottostante. Una lenta migrazione fu incoraggiata anche dalla costruzione della stazione ferroviaria Pisciotta – Castrocucco nel 1888.
Ai trekker più audaci, che si arrischiano a percorrere il sentiero lastricato per raggiungere questo gioiellino in rovina, si suggerisce una visita al castello del borgo – datato all’XI secolo e di cui sono ancora visibili resti della navata centrale e della cappella palatina – insiema al palazzo baronale e alla chiesa di Santa Maria degli Angeli.
Questo viaggio nel tempo si conclude con Romagnano al Monte, terra di mezzo, desolata e mistica situata in provincia di Salerno, a marcare il confine tra Campania e Basilicata. Il nome deriverebbe dall’influente famiglia patrizia dei Romanius, che avrebbe abitato, sin dalla sua fondazione, questa cittadina adagiata sulla valle del fiume Pantano, a 650 metri sul livello del mare.
Come gran parte dei centri abitati limitrofi, la quiete del paese è stata squarciata dal rombo violento della terra che nel 1980 ha tremato come mai prima, scuotendo tragicamente la vita dei suoi quasi mille abitanti. Ma prima ancora del drammatico sisma, il destino di questo borgo abbandonato sembrava già fatalmente segnato: epidemie di peste, ripetute carestie e uno spietato brigantaggio hanno martoriato le sorti di Romagnano nei secoli, preannunciandone la futura rovina e il definitivo esodo dei suoi cittadini.
Inoltre, in pochi passi, muovendosi da est verso avest, è possibile percorrere secoli di storia attraverso un contrasto architettonico stridente che rende il tutto, se possibile, ancora più estraniante ad un occhio alieno: ai moderni palazzoni a sei piani risalenti agli anni 70, si accosta surrealmente l’edilizia decadente che racconta le origini del borgo.
Così, la Chiesa della Madonna del Rosario, insieme a oggetti obsoleti, calcinacci, scalinate labirintiche e mangiatoie incastrate nella roccia, risuona di inquietudine, abbandono e di una bellezza sfiorita che ancora sa sussurrare storie alle orecchie più pronte.
Come si fa, dunque, a non cedere al muto richiamo di una sala da biliardo vestita di polvere? O al tepore di visi quasi familiari su fotografie scolorite? Alle storie afone raccontate dalle colonne cedevoli e stanche di una villa abbandonata? O alle parole incastrate tra le molle a vista di materassi ammuffiti, su cui si sono amati chissà quanti corpi, chissà quante volte?
Ogni singolo metro quadrato di questi posti vale uno sguardo pieno a una vita che non è più, ma che conserva la forza nostalgica ed inebriante di un ricordo sepolto e riaffiorato con un dettaglio.
Un po’ come l’infanzia di Proust esplosa nel sapore delle madeleines…
Francesca Eboli
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