Animal Save Italia e la sua lotta per un mondo migliore e antispecista – prima parte
In quest’intervista divisa in due parti, il movimento Animal Save Italia ci spiega le cause principali del cambiamento climatico, guidandoci in un’analisi dettagliata dei molteplici danni degli allevamenti intensivi sull’ambiente
Puoi iniziare a dirci cos’è Animal Save: per cosa vi battete, quali sono i vostri obiettivi principali e come pensate di raggiungerli?
«Come Animal Save Italia condividiamo e pratichiamo i valori di base di un movimento globale chiamato Animal Save Movement, che si divide strategicamente in tre capitoli: Animal Save, Climate Save e Health Save, impegnati a rivendicare – attraverso tre approcci differenti ma complementari – il diritto alla giustizia per tutti gli esseri viventi ospiti su questo pianeta. Una giustizia multi specie.
Come “Animal Save” ci occupiamo di esporre i luoghi e le pratiche di sfruttamento animale con tutti i mezzi a nostra disposizione. Durante le nostre azioni di testimonianza diretta – chiamate “veglie” – portiamo il nostro attivismo direttamente di fronte ai mattatoi per incontrare gli animali stipati nei camion. In questo modo cerchiamo di raccontare le loro storie prima che spariscano per sempre dietro quelle mura.
Il nostro compito come attivistə per la liberazione animale è quello di amplificare le voci di resistenza che questo sistema di produzione alimentare riduce al silenzio e condanna all’invisibilità.
La nostra branca “Climate Save” si occupa più specificatamente di lottare contro i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale, esponendo l’impatto ambientale del sistema di produzione alimentare fondato sullo sfruttamento animale. Cerchiamo di diffondere una maggiore consapevolezza sociale e politica circa le principali cause della crisi ecologica globale in atto, così da evidenziare l’interconnessione fra le diverse forme di oppressione e sfruttamento. In piena sintonia con le richieste dei principali movimenti ecologisti, anche Climate Save propone la riforestazione della Terra e l’eliminazione graduale dei combustibili fossili.
“Health Save” si occupa infine di giustizia alimentare, perché il cibo sia nutrimento per tutti e tutte e non uno strumento di sofferenza e disuguaglianza. Attraverso Health Save cerchiamo dunque di promuovere l’accessibilità ad una sana alimentazione a base vegetale, con particolare attenzione alle comunità più vulnerabili e marginalizzate.
Siamo un movimento nonviolento. La nonviolenza è un metodo di lotta per l’eliminazione di ogni forma di violenza: economica, politica, sociale, religiosa, psicologica ed infine fisica. Il nostro scopo è fare pressione su governi, istituzioni e soggetti produttivi attraverso un sempre più ampio coinvolgimento dell’opinione pubblica. Vogliamo spingere le persone ad attivarsi ed essere parte del cambiamento.»
In che modo l’allevamento intensivo di bestiame influisce sul riscaldamento globale?
«È la scienza a metterci in guardia – ormai da diversi anni! – sul fatto che gli allevamenti intensivi siano fra le cause principali del riscaldamento globale.
Nel Rapporto FAO del 2006 Livestock’s Long Shadow è stato calcolato che gli allevamenti intensivi producono il 18% di anidride carbonica, metano e ossido di azoto, mentre, ad esempio, l’attività di trasporto via terra, acqua e mare ne causa solo il 14%.
Al momento attuale, Per FAO e IPCC – l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura e il gruppo intergovernativo dell’ONU che studia il cambiamento climatico e il riscaldamento globale – con il 14.5% delle emissioni totali di gas climalteranti, il settore zootecnico è il secondo principale responsabile di inquinamento atmosferico e il primo per quanto riguarda il metano, un gas serra altamente dannoso e il cui effetto è ancora largamente sottostimato.
Il metano, che ha un potenziale di riscaldamento globale circa 28 volte più grande di quello dell’anidride carbonica, ha un ciclo di vita medio di 10 anni (passati i quali non scompare, ma si degrada in anidride carbonica, e viene comunque rimpiazzato da quello che continuiamo ad immettere in atmosfera).
Il sistema di produzione basato sullo sfruttamento animale rappresenta, a livello mondiale, il maggiore fattore d’uso antropico delle terre: direttamente e indirettamente, la moderna industria zootecnica utilizza complessivamente il 30% dell’intera superficie terrestre non ricoperta dai ghiacci, nonché il 70% di tutte le terre agricole. Foreste, aree pluviali e zone selvatiche vengono sistematicamente violate e distrutte, sostituite da pascoli e colture destinate al nutrimento degli animali rinchiusi negli allevamenti di tutto il mondo.
L’avanzamento della deforestazione è il primo evidente segnale di impatto di un sistema di produzione alimentare crudele e insostenibile da tanti punti di vista, che ha precise responsabilità nei confronti della crisi climatica. In Amazzonia, per citare solo uno dei luoghi più colpiti dal fenomeno, l’85% della deforestazione è dovuto all’impianto di nuovi allevamenti e coltivazioni mangimistiche per gli animali allevati.
Sappiamo che le foreste funzionano come “carbon sink”, serbatoi di carbonio: la loro scomparsa e la loro ridotta capacità di assorbimento, facilita ovviamente l’aumento della temperatura globale.
Infine, spesso viene dimenticato il ruolo fondamentale e insostituibile degli ecosistemi oceanici e marini nella produzione di ossigeno, nella regolazione del clima e nella conservazione della biodiversità. Basti pensare che circa il 71% della superficie del Pianeta è coperta d’acqua – i ghiacci ne rivestono un ulteriore 10% – e che il 96,5% di quest’acqua viene proprio dai mari e dagli oceani, i quali producono oltre il 50% dell’ossigeno che respiriamo e sono la casa di circa l’80% delle specie viventi attualmente conosciute. Anche gli oceani – come le foreste – sono definiti “carbon sink”, in quanto funzionano come dei veri e propri serbatoi di assorbimento del carbonio.
Ancora una volta, dunque, tutti i dati a nostra disposizione suggeriscono l’urgenza di riconoscere, ristabilire e difendere gli equilibri profondi che regolano l’interconnessione fra vita animale, salute degli ecosistemi e presenza umana su questa terra. Mentre le foreste – il polmone verde del pianeta – sono in fiamme, anche il polmone blu sta affrontando una crisi silenziosa senza precedenti, causata non solo dalle dirette conseguenze della pesca e dell’acquacoltura, ma anche da quanto accade sulla terraferma. L’80% dell’inquinamento marino viene prodotto a terra: concimi, pesticidi e sostanze chimiche, scarichi e deiezioni provenienti dagli allevamenti.
Come potrete intuire il problema è talmente ampio e ramificato che non bastano certo soluzioni di mitigazione e compensazione delle emissioni: urge un cambiamento radicale di sistema, e in questo cambiamento è centrale il modo in cui produciamo il cibo che dovrebbe nutrirci e che invece semina devastazione e sofferenza.»
C’è, però, anche la questione dell’allevamento a km0 che si basa su tecniche tendenzialmente più sensibili all’ambiente (perché prerogativa di piccole aziende locali). Potrebbe essere una buona alternativa?
«Esiste ormai una vasta letteratura scientifica che mette in discussione il modello di allevamento a pascolo come modello di produzione agroalimentare scalabile. “Grazed and confused?”, un report pubblicato nel 2017 da un noto network universitario britannico, per esempio, stabilisce che: “inteso come sistema globale di produzione, nessun tipo di allevamento, nemmeno quello a pascolo ubicato in aree non diversamente utilizzabili per la produzione alimentare, è meno impattante di un sistema di sole coltivazioni a uso diretto. Nessun tipo di allevamento, inteso come sistema globale di produzione, ci permetterebbe di incontrare gli obiettivi di lungo termine IPCC”. Queste conclusioni si spiegano facilmente se pensiamo che quasi tutti i cibi di origine animale hanno un’impronta carbonica superiore a quelli di origine vegetale, a prescindere dalle condizioni di allevamento o coltivazione, di lavorazione, trasporto e distribuzione.
La dottoressa Tara Garnett, scienziata responsabile delle ricerche per “Grazed and confused?”, arriva ad affermare che, in quanto all’allevamento, l’unico modo in cui governi e cittadini possono combattere la crisi climatica è ridurre il consumo di carni e derivati.
Finora ti ho citato alcuni studi autorevoli, ma vorrei concludere con una riflessione che non mi sembra secondaria: se pure non volessimo tenere in considerazione questi ed altri dati autorevoli e produrre carne al costo di centinaia di euro al kg… sarebbe giusto trasformare questo cibo in un bene di lusso, ulteriore strumento di disuguaglianza e divario socio-economico? È veramente questo lo scenario cui vogliamo arrivare piuttosto che modificare le nostre abitudini e trasformare questo sistema in un’alternativa più giusta e sostenibile che non lasci indietro nessuno?»
Anna Illiano
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