Antonioni: l’eclisse dell’eros e il dramma dell’incomunicabilità
Antonioni è il maestro del secolo breve ad aver fabbricato un mood cinematografico alieno, una poetica di disillusione e disperazione inarticolata che rovescia in modo sublime i cliché sull’eros e detta i nuovi comandamenti di un’amore senza pulsioni.
Nello spettrale scenario post-bellico degli anni ‘50, uno spazio vuoto abitato da uomini mutilati e sentimenti spogli, arte e letteratura raccontano lo spirito di un’epoca smembrata attraverso una narrazione afona, rotta, densa di vuoto e di stasi emotiva, un’estetica del silenzio in cui connessioni vitali e valori secolari vengono radicalmente decostruiti e rimaneggiati.
La filmografia di Antonioni, più di tutte, invertendo audacemente le logiche tradizionali del racconto di finzione, inscena un piccolo miracolo: dà uno spessore ad un momento esistenziale inesprimibile, inventando una grammatica visiva e verbale in cui l’intreccio è smontato e il senso quasi del tutto evaporato.
La solitudine moderna di individui in dissolvenza, disorientati dal crepuscolo delle verità credute salde, si materializza nell’anti-suspense di un paesaggio quasi metafisico, di un tempo surrealmente dilatato che non ha precedenti storici.
Ne L’eclisse (1962), in particolare, storia di una donna smarrita tra due passioni consumate (nonché ultimo capitolo della sua indimenticabile trilogia dell’incomunicabilità), il regista restituisce una forma tangibile alla noia in un dramma evanescente di deserti arsi dal silenzio e di significati consumati da un tempo congelato.
Nell’anti-climax di una realtà sospesa tra sofferenza e noia, gli espedienti narrativi classici come colpi di scena e miracolose risoluzioni finali, lasciano spazio a tempi morti, sequenze ripetitive e futili interazioni a digiuno di slanci emotivi prepotenti: l’amore tra Riccardo e Vittoria ci viene raccontato come un’eclisse sentimentale in cui il nulla diventa senso supremo della fenomenologia amorosa, in cui le parole si poggiano pigramente sulla geografia troppo spigolosa del quartiere E.U.R. di Roma, perché orfane di quella vivacità fresca e pulsante di un amore ancora giovane.
I movimenti atipicamente statici e prolungati della macchia da presa, il linguaggio volutamente elusivo e le inquadrature ostinate su volti e dettagli, creano il più debole effetto cinetico possibile sullo spettatore, studiate accuratamente per dare corpo a quella disintegrazione emotiva, a quel limbo esistenziale di profondo vuoto e melanconico nulla divenuto nel tempo la cifra caratterizzante dell’arte del regista.
L’alienazione che abita il disilluso amore tra Monica Vitti ed Alain Delon si racconta con toni sommessi, senza proferire parola, attraverso scenari urbani spettrali, inabitabili, non-luoghi industrializzati in cui la presenza umana è sistematicamente rimossa, tagliata fuori dall’inquadratura: le architetture fasciste glaciali, sepolcrali, sono il suolo sterile in cui nessuna emozione può germogliare e in cui i personaggi sembrano agire quasi come alieni dal futuro, in visita su una terra post-apocalittica.
È un’arte spezzata fatta di silenzi impenetrabili e di dialoghi monosillabici, in cui l’osservatore riscopre una verità anti-comunicativa che smaschera i cliché verbali e scova l’imbroglio di una parola che non sa più parlare: gli amanti cercano di toccarsi ma il verbo non basta più, sono intrappolati in un impasse comunicativo che annichilisce ogni connessione fisica ed emotiva.
Antonioni infatti, costruisce un sottotesto di dense assenze e frasi rotte che lascia i desideri degli amanti puntualmente inintelligibili: un linguaggio non esplicativo sospende i protagonisti e gli spettatori tra la quiescenza di chi non ha più nulla da dire e il silenzio di possibilità future che non hanno più voce, lasciandoli in un mondo di passioni polverizzate, arse.
Come accade con i sentimenti di Vittoria, che non si lasciano domare dal linguaggio conosciuto e trovano espressione nel vuoto, scarno e indecifrabile codice di parole che usa, in quei ripetuti “Non lo so” quando interrogata da Riccardo sulle sue intenzioni.
Un dramma silenzioso che si rinnova anche nella neo-relazione con Piero: “vorrei non amarti o amarti molto meglio” confessa Vittoria nostalgicamente in una scena iconica del film. Seguita dall’amante che ammette di sentirsi come in “un paese straniero” ogni volta che trascorrono del tempo insieme.
È chiaro che le buone vecchie strategie erotiche non sortiscono più effetto in questa rinnovata corrispondenza amorosa, in cui la dolcezza delle più passionali dichiarazioni che hanno fatto la storia della settima arte sembrano quasi parodiate e svuotate di bellezza.
Antonioni ha così destrutturato l’alfabeto dell’amore spogliandolo dei suoi toni epici e delle sue sfumature più melense, espropriandolo dei suoi patetismi e delle sue utopiche chiusure. Lo ha vestito di inguaribile sfiducia e di silenzi disturbanti, così da restituire ad un umanità sull’orlo del baratro una narrazione veritiera, seppur opaca, capace di rendere tangibile una solitudine inesprimibile.
Perché un’arte così poco rumorosa era l’unica voce superstite dopo le tragedie di Auschwitz, Hiroshima e Vietnam: un racconto sulle sconcertanti verità di un mondo perduto, la fine di tutte le storie possibili.
Francesca Eboli
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