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Homo Sapiens e pettegolezzo. Perché non ne possiamo fare a meno?

A volte il pettegolezzo si nota in uno sguardo indiscreto, altre in un chiacchiericcio fastidioso.

Non solo, come dimenticare le risatine smorzate quando si parla liberamente d’amore?

E se vi dicessi che non siamo persone orribili ma solo individui molti simili ai primi Homo Sapiens?

Da bambino, mia nonna era anche la mia maestra dell’elementari. Non una qualsiasi, ma una di quelle all’antica.

Bacchettava le mani con il righello al ritmo di tempi verbali sbagliati. Batteva il pugno sulla cattedra con gli occhi iniettati di sangue. Il volto paonazzo ricordava il sergente maggiore Hartman schiumante di rabbia. 

Quando la punizione toccava a me, gli altri bambini sghignazzavano come se fossi un appestato. In quel momento desideravo solo costruire una zattera e scappare via lungo il fiume Volturno in una versione campana di Huckleberry Finn.

Poi al cospetto di un bel piatto di pasta e patate fumante mia nonna mi diceva: “devi ignorare le chiacchiere. Abbraccia la croce perché le persone parlano, sparlano e lo faranno sempre. Il pettegolezzo è una costante antropologica”. 

All’epoca l’aggettivo antropologico risuonava come una malaparola. Capivo solo alcune di quelle parole. Nonostante tutto, riuscì a intuire che qualcosa non tornava in quel ragionamento. 

Un mio caro professore universitario, uno di quelli che ti segnano per la vita, dopo anni mi aiutò a riflettere. A lezione ci spiegava che il modo più efficace per leggere un fenomeno è usare l’immaginazione sociologica. 

Ora, seguitemi in questo gioco. 

Immaginate che il professore in questione si chiami Robin Dunbar, uno dei più importanti antropologi britannici. 

Passeggia felice in compagnia della sua compagna. Gioca con le sue dita e la guarda con una faccia beota. Non vede l’ora di andare per la prima volta a casa sua. Abita in uno nei quartieri bassi di Napoli, alle spalle di San Biagio dei librai. Non all’inizio della strada ma in fondo, nei meandri di lunghe viuzze tortuose. 

La strada sarà larga quattro metri al massimo, tanto che le automobili vi passano a stento. Un luogo lontano anni luce dalla metropoli londinese.

Inoltrati nel vicolo, lei gli stringe il polsino della camicia e consiglia d’ignorare i guaglioni appollaiati sui sedili di motorini roboanti. Porta l’indice alle labbra e fa cenno di seguirla. La guarda incuriosito negli occhi: non capisce.

Signore truccate boccheggiano all’esterno do’ vascio. Sfoggiano dei fazzoletti scarlatti al collo e ostentano unghie laccate. Dunbar è molto curioso. Prova a ignorarle, eppure proprio non ci riesce a non impicciarsi. Così distingue una voce rauca:

Concettì lo sapete che questo è il terzo che si porta a casa in questa settimana?”

Ci sono due modi di reagire a questa situazione. 

E lo sapete bene, non mentite. C’è una soluzione blanda: incenerire la signora con un’occhiataccia e un’altra più drastica: afferrare un vaso dal davanzale di casa e lanciarlo come se fosse una molotov al napalm.

Ma c’è anche un’alternativa più ragionevole: praticare la non violenza.

Per questo, proviamo a sfogliare il libro Di quanti amici abbiamo bisogno scritto da Dunbar.

La domanda a cui dare risposta è: “Perché la signora ha avvertito l’esigenza di condividere quell’informazione con l’amica Concettina? “

In realtà, il chiacchiericcio è fondamentale per il quartiere. Comprendere chi è degno di fiducia e chi non lo è equivale a identificare il ruolo sociale assegnato a quello specifico individuo. È come appicciare un post-it colorato – ogni colore corrisponde a un ruolo – sulla fronte della persona sospetta. 

Così facendo si distinguono gli elementi più stabili del gruppo sociale.

Quando gli Homo Sapiens acquisirono le nuove abilità linguistiche circa 70.000 anni fa poterono spettegolare per ore, senza fine. L’inizio della rivoluzione cognitiva ha avuto origine proprio in un comportamento simile a quelle delle due anziane signore. Un vero e proprio strumento usato dai Sapiens per istituire collaborazioni sempre più intense e complesse. 

Vi rendete conto? Tutta l’infanzia a immaginare gli Homo Sapiens in pellicce di bisonte made in Lascaux e lance di abete rosso numero quattro.

E invece?

Non basta cacciare bisonti o raccogliere bacche per la sopravvivenza del gruppo. Certo, le abilità manuali sono fondamentali per non morire di inedia ma i Sapiens sono anche pigri, molto pigri. Adorano sonnecchiare attorno al braciere e scoprire chi ha segreti, chi ispira fiducia e chi è conforme alle tacite regole collettive. 

Ora, la signora Concettina non ha visto la compagna di Dunbar fare qualcosa, a meno che non possieda un binocolo infrarossi da perfetta voyeur

Il pettegolezzo allora sostituisce ogni lente possibile e immaginabile. Si concentra su ciò che non va. Obbliga al rispetto delle norme sociali, esclude chi provoca anomia.

Ma c’è ancora un problema. Non bastano tutti i binocoli del mondo per garantire l’aggregazione sociale. Se si vuole controllare le mutevoli relazioni di anche solo poche decine di individui, è necessario filtrare una quantità sbalorditiva di informazione. 

In una compagnia di cento soldati, ad esempio, si può operare perfettamente sulla base di relazioni strette con un minimo di disciplina formale. Eppure, superata la soglia, i soldati potrebbero addirittura fucilarsi a vicenda.

Nessuna organizzazione umana può sussistere grazie alla sola conoscenza intima e ai pettegolezzi. È necessario che diventino racconti esemplari capaci di saziare l’appetito atavico che caratterizza noi Homo Sapiens da circa 70.000 anni. 

È suggestivo pensare che così come i ragni tessono tele intricate, noi Homo Sapiens raccontiamo storie.

La nostra strategia evolutiva è progettata per controllare ciò che raccontiamo agli altri – e a noi stessi – su chi siamo, o su chi l’altro sia.  Dimentichiamo, poi, che siamo noi stessi gli autori di quelle narrazioni che uniscono e danno vita a gruppi di migliaia e migliaia persone.

Allora vi chiedo: “Il pettegolezzo è la nostra salvezza o la nostra condanna?”

Luigi Celardo

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Luigi Celardo

Uno dei primi ricordi di cui ho memoria è legato alla scelta del mio nome. Mia madre decise Luigi per il richiamo regale, per mio fratello scelse Teo. Insomma: Re e Dio (le aspettative erano basse!) Ho ereditato la follia familiare (non la megalomania, fortunatamente). Dopo una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, ho deciso di specializzarmi nella comunicazione umana in ogni sua forma (addio transistor e resistori!) Cerco di comprendere i segreti del linguaggio bazzicando romanzi post-moderni, saggi di sociologia, pellicole della Nouvelle Vague e serie-tv comiche.

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