Memoria e menzogna. Perché è così difficile ricordare?
Nutriamo profonda ammirazione per chi riesce a ricordare con precisione disarmante.
C’è chi ricorda perfino il ricamo della pochette infilata nel taschino al buffet dei suoi diciott’anni.
Eppure c’è chi proprio non ci riesce a fidarsi dei propri ricordi.
Non avete la sensazione che, a volte, siano abbelliti? Come se fossero manipolati dalla fantomatica clinica Lacuna Inc. diretta dal dottor Howard Mierzwiak?
Altre volte, invece, sembrano frutto di una florida immaginazione. Intrugli di emozioni, relazioni e tutte le altre cose che finiscono in “–zioni”, preparati da Stéphane Miroux.
I dettagli vengono impressi nella memoria come un sigillo sulla tavoletta di cera. Metafora aristotelica che descrive la permanenza del ricordo. Comincia, allora, la caccia alla primitiva impronta. Inseguimento vano perché il ricordo è già un’interpretazione. Riscritto varie volte, come su un palinsesto, deturpa l’immagine della prima versione.
Ad esempio, mio cugino ricorda con estrema nitidezza il primo giorno di scuola. Era convinto che il maestro fosse suo padre travestito.
Allo scampanellio dell’ultima ora, si precipitava fuori di corsa per cercare di arrivare a casa prima che mio zio riuscisse a trasformarsi di nuovo. Ricorda il sollievo di non averlo sorpreso nell’atto dell’incarnazione. Stravaccato sul divano, consumava le ore in zapping compulsivo. Un portamento ben lontano dalla postura superba del maestro.
Lo so, pensate che ricordi come questi non possano sprofondare nell’oblio così facilmente. In effetti, le emozioni che l’accompagnano sono difficili da sublimare.
Poi ci sono quei momenti imbarazzanti.
Ciondolando sul sediolino dell’auto, battete le mani al ritmo di just the two of us. Un vostro amico vi domanda: “Cos’hai mangiato a pranzo? Stasera ho voglia di pizza…” Iniziate a sudare freddo. Sgranate gli occhi. Piccole gocce di sudore imperlano la fronte. Provate a concentrarvi, inutilmente. Poi confessate: “Ehm… non ricordo, forse pasta e lenticchie”.
No, non siete affetti da un principio di deterioramento cognitivo. Questi due ricordi hanno semplicemente una natura diversa; sono avvenimenti della nostra vita che formano la memoria a lungo termine. Il neuroscienziato Endel Tulving parla, a tal proposito, di memoria episodica.
Ma perché il ricordo del pranzo è un momento di trascurabile felicità?
Proviamo a capirci qualcosa. È un ricordo ordinario che corrisponde allo stimolo fisiologico del nutrimento. Appartiene alla routine quotidiana. Anche se il pasto può variare a seconda del languore allo stomaco (molesto o meno) o di ciò che avanza nel frigorifero, l’obiettivo si esaurisce nel momento stesso in cui riponete il piatto nel lavandino. Non arricchisce la vostra conoscenza sul mondo.
Invece il ricordo del maestro è saliente. Possiede tutte le caratteristiche per soddisfare i requisiti della buona codifica studiata dagli psicologi Scott Brown e Fergus Craik.
Innanzitutto, afferisce al primo giorno di scuola che, culturalmente, si annovera tra gli episodi cruciali della nostra esistenza. In più veicola un conflitto: il ruolo paterno che si sovrappone al ruolo di maestro. Tradisce l’aspettativa naturale: il padre non è l’unico individuo che ha il compito di istruire un figlio.
È ingenuo pensare che la memoria autobiografica sia un archivio illimitato. Non basta la sola disposizione della traccia mnestica – avere o non avere quel ricordo nella memoria– ma l’alone emotivo che lo innesca e l’oblio che seleziona.
Ricordare è dimenticare, suggeriva Paul Ricoeur.
Riuscite a immaginare cosa prova chi ha una memoria illimitata?
Ve lo dico io: deliri notturni come il Funes di Borges. Stremato nel letto, enumera i ricordi passati di un’intera giornata. Ma non basta, ne serve un’altra. Ancora e ancora, inesorabilmente. Fino alla paralisi intellettuale.
Seduti sulla riva del fiume Mnemosine, il ricordare è come la pesca di Santiago. Il ricordo abbocca all’esca. È riottoso come il Merlin. Si ribella al giogo del richiamo mnemonico e, smembrato dagli squali, risale la china della coscienza.
Allora, frame dopo frame si materializzano sottili granelli di sabbia, la sdraio bardata del lido Molpé, il bagliore lunare e il calore di un respiro sulla nuca scoperta. Ricordate, così, il primo bacio sulla spiaggia di Palinuro.
Ma cos’hanno in comune quel giorno di scuola e il ricordo amoroso?
Se ci riflettete bene, rappresentano, al di là del contenuto del ricordo, due tappe fondamentali della vita. È come se questi ricordi avessero un’importanza maggiore perché rientrano in una particolare sceneggiatura. Sono veri e propri script di vita. Il primo amore, il diploma o il matrimonio sono aspettative fornite da una data cultura di riferimento. Pattern narrativi che dovrebbero aver luogo in vari punti della vita e vissuti in età diverse.
Così una volta segnata la via maestra – il primo bacio – la memoria privata abbellisce o falsifica piccoli dettagli accessori.
La persona amata, ad esempio, ha sempre portato la frangetta scalata mentre quel giorno i suoi capelli erano raccolti in uno chignon. Eppure non potete fare a meno di ricordarla con la frangetta. L’individuo non può semplicemente rivivere il proprio passato, ma deve ricomporlo secondo sceneggiature di riferimento.
Siamo come personaggi scritti e riscritti continuamente. Ricordiamo scene di vita che ci inducono a pensare che non siano i film a imitare la vita ma è la vita stessa a imitare un film.
E voi quale sceneggiature avete nascosto nel cassetto dei ricordi?
Luigi Celardo
In copertina: Marc Chagall, Sulla città
Vedi anche: Ricordi? Quando frammenti di memoria raccontano una storia