Qui rido io è un affare di famiglia
Qui rido io è un film dai mille colori, in cui il riso si mescola con il tragico.
Il cineasta colto, Mario Martone, plasma una raccolta miscellanea di storie vere e di fatti immaginari, richiamando alla memoria la figura di un grande artista, di un leggendario teatrante: Eduardo Scarpetta.
L’istrione del teatro napoletano di fine ‘800 approda nel cinema contemporaneo grazie alla bravura di un regista come Mario Martone, il quale ha studiato, con rigore, tutte le carte edite e inedite; proprio come un filologo ha frugato fra gli archivi pubblici e privati riproponendo la storia di una vita eccentrica, amata e temuta.
Qui rido io è la frase che abitava le mura della villa estiva di Eduardo, luogo di cultura, il cenacolo di artisti, letterati e amici; tuttavia, la scena principale è sempre stata la sua. Parliamo di una personalità forte, coraggiosa, leggera ma al tempo stesso capace di far riflettere, di stimolare e accrescere l’arma del suo successo: il pubblico.
Marito e amante, padre e zio fittizio, nei suoi molteplici ruoli ha amato la sua famiglia allargata, popolata di incesti e tradimenti, ma sempre lì a nutrire la sua forza, la sua natura divoratrice di artista che sfama con il suo Felice Sciosciammocca il diletto del pubblico, che a sua volta, arricchisce di applausi la gloria di un uomo che non ha mai creduto nella sua fine.
Il film, oltre a presentare la figura estroversa e il genio di Scarpetta, è anche un affare di famiglia. Tutti hanno il suo gene, tutti sono eredi del suo teatro, qualcuno l’ha persino superato. Figli illegittimi e non, rampolli costretti a recitare, in maniera canonica, nei panni di Peppiniello di Miseria e Nobiltà, il tormentone: “Vincenzo m’è padre a me”. Lo zio riconosciuto e svelato in realtà come padre, qui la conferma di come vita e teatro fossero una cosa sola per Scarpetta. Nel film ogni attimo della sua quotidianità sembra un atto teatrale, una commedia vissuta senza palcoscenico e sipario. La sua vita è un prolungamento di quella fittizia, fatta di storie disparate, miseria e camminate buffe.
Lo stesso pranzo domenicale diventa un convivio superlativo con tavole sfarzosamente imbandite, con la famiglia protagonista che oscilla tra l’ozio, il canto e la partita a carte. “Fare teatro significa vivere fino in fondo quello che gli altri nella vita recitano male” dirà più tardi Eduardo De Filippo.
Autoritario ed esigente, Eduardo non ha mai riconosciuto la passione per la musica di suo figlio Vincenzo, colui a quale cederà le redini del suo operato artistico. Mentre il piccolo Eduardo De Filippo, a differenza di Vincenzo, ha sempre amato il teatro, guardandolo da dietro le quinte, per poi trasformare la sua passione in parole, in commedie scritte. “I De Filippo sono una famiglia unita” frase che diventerà l’origine di un futuro prospero. La loro libertà sarà il palcoscenico.
Questa corte di donne, artisti, attori è interpretata in maniera notevole dal cast, per non parlare della sublime versatilità di Toni Servillo, il quale fa il suo ingresso con camminata alla Charlot, mostrando anche una sua attitudine comica, emulando ma sempre in modo autentico, con una spiccata personalità colorata.
Quella di Eduardo Scarpetta non è più la commedia dell’arte, non ci sono più maschere come quella di Pulcinella del grande Petito, poiché essa morirà con il teatro popolare, ma anche moderno. Così, nel film Martone lascia un piccolo spazio ad un padre spirituale ucciso: la maschera del passato torna a fargli visita, o meglio, lo spettro di un successo ormai finito. Gli appare Pulcinella, sdraiato e inerme su sul palco, mentre Eduardo incredulo lo guarda, senza sapere che ciò che sta guardando è la sua resa dei conti, dal momento che il ciclo della vita e dell’arte hanno aperto le porte ad una nuova generazione, ad una nuova fase artistica. Mentre Pulcinella scompare, muore anche sua figlia, presagio di una fine non molto lontana.
La scena, che precede l’incontro con l’immaginazione e la paura di Eduardo, è davvero emblematica. Dal centro della fama, egli si trova solo mentre passeggia per le strade di Napoli; il buio e il silenzio lo accompagnano all’uscita del teatro della vita, per condurlo alla solitudine e alla malinconia della sua vita reale, quella consapevole del cambiamento. Artisti come Bracco, Bovio, Di Giacomo saranno quelli più acclamati. Come dice Benedetto Croce all’attonito Scarpetta, quando gli annuncia che lo difenderà dalle accuse di D’Annunzio in tribunale: “Ma come, voi che ridete di tutto non sapete ridere sul tempo che passa?”. Il nucleo centrale del film è proprio questo, centrato sulla figura eccentrica di un capocomico amato, sicuro di sé, pronto a rubare la scena a figli e figliastri fino all’ultimo istante, anche a costo di umiliarli. Ma non accetta il tempo che passa, il suo rovescio del sublime.
Quando arriva la parodia dell’opera teatrale di D’Annunzio, Il figlio di Iorio, il regista nella stessa scena alterna le battute auliche del Vate con quelle grottesche di Eduardo, creando un gioco di parti davvero significativo ed esplicativo. Due mondi opposti, in collisione tra loro. Ben riuscito è il finale, in cui Scarpetta fa di tutto per arringare il tribunale attraverso un clamoroso spettacolo farsesco e umoristico, chiudendo la scena con il grande stile dell’epoca. Anche qui gli applausi ritornano ad essere i protagonisti, mentre il riso diventa esplosione collettiva di umori, un carnevale di sentimenti.
Marianna Allocca
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