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Davide DDL, ridere e riflettere con la stand-up comedy

Il Ceci n’est pas un blasphème, il festival delle arti per la libertà di espressione, si è avvalso di ogni tipo di manifestazione artistica per sostenere la propria causa, e non poteva certo lasciare fuori la stand-up comedy

Davide Di Lorenzo è un comico, un autore satirico, un podcaster e copywriter. È stato lui a dirigere lo spettacolo che si è tenuto lo scorso venerdì presso il Lanificio 25, e ha accettato di rispondere a qualche domanda prima di andare in scena. 

Come mai hai accettato di partecipare al Festival?

«Penso sia una manifestazione con un senso molto specifico che, purtroppo, negli ultimi giorni, per operazioni indipendenti di alcuni subvertiser e non legate direttamente al festival, è stato stravolto, almeno nell’opinione pubblica.

In clima campagna elettorale è stata sganciata questa bomba mediatica con lo scopo di togliere consensi alla sinistra. Ma il senso del festival, e il motivo per cui ho accettato di partecipare, è che nel mondo, ma anche in Italia – si potrebbe dire in forma sicuramente meno invadente, ma gli eventi degli ultimi giorni dimostrano che è, in realtà, invadente – la censura verso le forme di blasfemia, oltre che essere molto potente, in alcuni paesi come il Pakistan, viene utilizzata come pretesto, da parte di chi ha il potere, per eliminare soggetti scomodi.

I reati che hanno a che fare con l’espressione e con l’opinione sono suscettibili di interpretazione e questo rende possibile, a chi detiene il potere, di utilizzare le leggi contro la blasfemia per uccidere o recludere i dissidenti. Sono reati che di fatto non hanno niente a che fare con la religione. Non credo che quando condannano a morte qualcuno per blasfemia, in Pakistan o in qualsiasi altro paese, sia davvero perché credono che sia stato offeso Dio. Credo, piuttosto, che stiano usando quel pretesto per eliminare qualcuno le cui idee risultano scomode. Questo è il motivo per cui ho accettato di partecipare al Festival: perché i reati contro la blasfemia sono una delle forme più pressanti di controllo della libertà di espressione e del pensiero critico e prescindono dalla religione. Dio, le religioni, sono narrazioni come altre e, anzi, hanno sempre meno piglio in Occidente, perché ormai il capitalismo le ha superate alla grande almeno trent’anni fa»

Nel tuo lavoro hai mai avuto problemi da questo punto di vista? 

«Intendi come comico o nel lavoro vero che mi dà gli stipendi? – ride – 

Di base no, ho avuto delle querele in passato, prima ancora di fare il comico, quando scrivevo… però non per motivi religiosi, qualcuno di molto più importante mi ha denunciato. In realtà, in Italia, il sistema delle leggi è censorio a prescindere perché, quando scrivi qualcosa per la quale vieni querelato sei costretto a rimuoverla e a dimostrare in tribunale che la denuncia non aveva fondamento, che non era diffamazione. Possono volerci anni per riuscirci. L’atto della querela già di per sé rimuove il pensiero critico dalla rete, dalla carta stampata ecc., e se hai pochi soldi ancora di più, perché minacciano di farti pagare cifre incredibili e, se le persone che hai infastidito sono potenti, allora preferisci lasciar perdere.  Esiste la censura e rientra in uno schema classista e borghese, come in tutti i sistemi di mantenimento dello status quo» 

La stand-up comedy è tra le forme d’espressione più libere?

«Sì, perché quando si fa stand-up comedy si è in una bolla. Il pubblico sa già cosa aspettarsi. Anche se a me piace molto l’idea di andare a fare stand-up dove nessuno sa cosa sto per fare, perché è una sfida. Altrimenti, come disse anche Daniele, vai a fare proseliti tra i convertiti. Se tutti quelli che ti ascoltano la pensano già come te, prendi l’applauso, fai ridere, ma dov’è il fine sociale? Dov’è lo scopo? Il significato? 

È vero che la stand-up comedy è soprattutto intrattenimento, perché se non fai ridere non stai facendo un buon lavoro. Ma ha anche l’onere di far pensare, di mostrare un punto di vista diverso e approfondito su qualcosa. Quindi sì, c’è la libertà di esprimersi, però non bisogna chiudersi in una bolla. Bisogna riuscire a dire quello che si pensa in ogni contesto, far passare il messaggio, far ridere senza però svendere i propri contenuti»

Come scegli i temi da portare sul palco?

«Mah, io parlo poco di me stesso perché mi ritengo poco interessante, cioè, ho una vita normale, sono abbastanza un cacasotto, non faccio una vita piena di avventure. Però, quando c’è un argomento che mi tocca, ne parlo. Di norma approfondisco i temi che mi interessano e li racconto tramite aneddoti, cercando di vedere quali contraddizioni si nascondono nelle cose. Le contraddizioni fanno ridere perché sono inaspettate e tutto ciò che disattende le aspettative fa ridere. Questa è la base della comicità, e diventa il naturale processo per trasformare la storia in un monologo» 

Ti aiuta ridere di quello che più ti colpisce?

«No, questa cosa di fare terapia con la stand-up dovremmo dimenticarla. La terapia è una cosa, la stand-up è un lavoro. No, non si elabora il lutto, non si elabora il dolore. Si cresce intellettualmente, questo sì. Però è una professione. Si deve andare sul palco e intrattenere. Anche io, quando ho iniziato, ho portato dei temi della mia vita molto forti, perché pensavo in questo modo di affrontarli. Ma questo non succede mai, anzi. Quando si prova a fare terapia con la standup si finisce per buttare le proprie tragedie sul pubblico, per poi trovarsi di fronte a un muro di cringe. È qualcosa da evitare, soprattutto se si vuole essere chiamati e pagati per un secondo spettacolo». 

Beh, ci ho provato. Avevo pensato di darmi alla stand-up comedy, ma pare mi tocchi continuare a pagare la psicologa. 

Ringrazio Davide per il suo tempo, le sue parole e il suo contributo al Festival. 

Nadia Rosato 
Foto copertina di Vincenzo Noletto

Vedi anche: Yele e la sacra bugia con TonyTres, l’arte in nome dell’anticlericalismo

 

Nadia Rosato

Nadia Rosato, napoletana di nascita e di residenza. Laureata in Filologia Moderna. Ho la luna in gemelli. Il modo migliore per farmi fare una cosa è dirmi che non posso farla.

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