Marco Prato e l’arte blasfema come nuova iconografia religiosa
Marco Prato, classe ’79, è un artista e regista napoletano trapiantato a Roma. Per la manifestazione organizzata a Napoli dal 17 al 30 settembre 2021, Ceci ne’est pas un blasphème, l’artista ha presentato la sua pentalogia di corti “blasfemi” in collaborazione con lo sceneggiatore Antonio Mocciola.
Ad essere proiettato sia al PAN che all’ex Asilo Filangieri il corto molto, molto blasfemo Il Vangelo di Giuda. Un mondo, racchiuso nella pentalogia, che ricrea la religiosità attraverso differenti chiavi di lettura , approcciando alla violenza e all’iconografia BDSM. L’arte, credo, deve essere raccontata dall’artista per poter fornire tutti i suoi significati. Ed è per questo che io e Marco abbiamo scambiato due ( molto più di due, dato che siamo “finti timidi” entrambi, ma celiamo un forte problema di logorrea) chiacchiere sull’arte blasfema, un immaginario religioso alternativo e molti altri argomenti belli.
Parliamo della tua opera, del messaggio che intende veicolare, da dove proviene. Com’è nata? Cosa vuole comunicare?
«Io mi diverto molto a giocare con le figurazioni, con l’iconoclastia. Inoltre, l’unico tatuaggio che mi porto addosso è una corona di spine, con la scritta Amami Mentimi. E si può adattare a molte cose, anche all’ambito religioso. Posso definirmi una specie di cristiano andato a male…»
Una specie di cristiano marcito.
«Forse come la mela mangiata originariamente».
Tu sei il peccato originale, quindi.
«Non così tanto, ma mi diverte questa cosa. Te la ruberò. Vorrei poter esserlo. Perché applicarlo al concetto della sessualità nella religione, perché io per un fatto formativo, i primi lavori in video che ho fatto sono nel campo del BDSM. L’ho praticato a livello professionale, facevo cinema BDSM. Questa componente me la porto dietro in ogni cosa che faccio. Mi piace utilizzarla come iconografia. Mi interessa molto il concetto estetico, mentre mi interessa meno la parte più estrema, mi piace molto la parte estetica. Fermarmi, dunque, al racconto senza andare oltre. Lavoro molto con i nudi, vengo anche da nudi fatti in performance, quindi ho una delicatezza nel trattarli. Molti attori mi dicono che “vesto i personaggi con la nudità” ed è la cosa più bella che mi possano dire. Perché a me interessa raccontare un corpo nudo, ma che sia antierotico. Mi interessa il corpo, la sua sofferenza, ciò che va a raccontare. Preferisco per questo lavorare con attori non professionisti, per tirar fuori da loro il gesto, la forma».
Non parliamo assolutamente di nudi erotici, di un’arte sessuale, dunque…
«Assolutamente no. Anzi, parliamo di un nudo che tende quasi alla morte. Mi piace mettere la persona davanti ad un’immagine che ti dia almeno da pensare. Inoltre, dobbiamo riflettere che nulla come la religione si presta al BDSM. La stessa idea di crocifissione è una cosa violentissima. “Come si fa ad adorare un torturato?”, si chiede la mia arte. Il macabro è l’altra mia grande passione oltre al BDSM. E quindi, cercando di mischiare le due cose, tiro fuori questo immaginario. E poterlo quindi applicare su un concetto di racconto. Non mi interessa fare una bestemmia, o provocare sterilmente, voglio raccontare con le immagini un corpo che viene martoriato, così come ci hanno raccontato biblicamente. La violenza all’interno del testo religioso è terribile e viene taciuta all’interno dei sermoni. A me piace portare questo in scena. Il fatto che venga taciuto riesce solo a farmi bestemmiare male. Prendiamo quindi la figura di Cristo e la decostruiamo. Questo è il mio scopo».
Sveva Di Palma
Foto di Giovanni Allocca
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