Dalla Sicilia a Roma fino a Napoli, a tu per tu con Gaspare Di Stefano
Tra i poliedrici artisti che hanno partecipato al Festival delle Arti censurate ci sono stati anche attori.
Tra questi, Gaspare Di Stefano, con il quale siamo riusciti a scambiare due chiacchiere durante la serata inaugurale.
Gaspare Di Stefano è un attore siciliano che attualmente vive a Roma. Si è formato al Teatro Biondo Stabile di Palermo e in contemporanea all’Akkademia del teatro Selinus diretta da Giacomo Bonagiuso.
Il trasferimento a Roma ha dato avvio alla sua carriera professionale tra collaborazioni teatrali, televisive e cinematografiche, tra cui: lo spettacolo La guerra dei Roses di Warren Adler per la regia di Ugo Chiti, L’innesto di Pirandello diretto da Monica Conti, il film Pshychedelic di Davide Cosco, la serie TV di Giovanni Minoli, Agrodolce.
Dagli evidenti tratti meridionali e dal sorriso contagioso, Gaspare è un artista completo: oltre a recitare nel senso più classico del termine, si destreggia tra vari dialetti, canta e suona la chitarra e il pianoforte.
Al Festival ha dato sfoggio del suo eclettico talento, allietando il pubblico con un simpatico stornello da lui scritto per l’occasione e con una poesia, in stile boccaccesco, di un autore siciliano censurato per molto tempo. Le sue interpretazioni sono state di grande efficacia e immediatezza espressiva.
Colpita dalle sue esibizioni, appena Gaspare è sceso dal palco, sono corsa ad intervistarlo per non perdere l’occasione.
Nella tua carriera hai preso parte ad altri spettacoli a sfondo anticlericale? Quali sono i motivi della tua partecipazione a Ceci n’est pas un blasphème?
«In realtà no: come Gaspare Di Stefano sono sempre stato critico verso l’istituzione clericale, ma come attore non ho mai fatto spettacoli di denuncia contro le religioni. Emanuela Marmo, che conosco perché faccio parte del pastafarianesimo, mi ha chiesto se volessi partecipare e io non ho esitato ad accettare. Lo stornello romanesco che ho presentato, l’ho scritto di mio pugno proprio per il Festival, come omaggio all’evento e alla religione pastafariana.»
Come mai hai scelto proprio la forma poetica dello stornello per esprimere il tuo omaggio e qual è stato il processo creativo alla base?
«Ho scelto lo stornello perché è un genere della tradizione popolare e a me il folklore ha sempre affascinato. In genere mi diverto a cantare stornelli romaneschi di Claudio Villa e di Gabriella Ferri, ma questa volta ho pensato di crearne uno io. Quando Emanuela mi ha invitato, ho riflettuto su cosa potessi rappresentare di inerente al Festival, dal momento che non sono un attore che vive di arte anticlericale. Quindi ho pensato di unire la tradizione degli stornelli al tema blasfemo, restituendo un inno al pastafarianesimo. Ho attinto dal repertorio delle canzoni popolari romanesche e siciliane, dal momento che io sono siciliano ma abito a Roma da quattordici anni. Fondamentale è stato l’aiuto di mia madre che mi ha coadiuvato nelle ricerche sui brani popolari siciliani. E insomma, alla fine il risultato che ne è uscito fuori lo avete ascoltato con le vostre orecchie. Spero vi sia piaciuto.»
E sì, ci è piaciuto e anche molto! Cosa puoi raccontarci invece a proposito della tua seconda esibizione?
«Ho recitato una poesia siciliana che in pochi conoscono. È di Domenico Tempio, un poeta censurato per secoli e riscoperto solo in tempi recenti da noi siciliani. La lingua chiaramente non è facilmente fruibile e infatti so che tante cose per questo motivo sono arrivate con difficoltà al pubblico. Ma ho scelto ugualmente questo testo poiché descrive la disperazione ironica di una monaca rinchiusa in un convento, la quale si lamenta di non poter fruire delle gioie della vita. È verosimile e significativo perché all’epoca tante donne erano forzate ad intraprendere questa vita controvoglia e ciò comportava loro enormi sofferenze.»
Per te cos’è la libertà di espressione in quanto artista? Ti senti libero di esprimerti al cento per cento quando reciti?
«Allora, su certi temi ovviamente si è liberi, ma su altri… beh, se facciamo il Festival delle Arti Censurate significa che di fatto liberi non ci sentiamo. Certo, secondo il mio parere una cosa è l’arte e un’altra è l’offesa. Sono due cose distinte e separate. Per fare un esempio: se durante una funzione religiosa vado a disturbare e a bestemmiare, allora quella è irriverenza. Io, personalmente, sarei contrario ad un’azione del genere, perché si andrebbe ad offendere la fede di qualcuno. Ma se le figure dei santi, di Dio e del Cristo vengono decontestualizzate dall’ambiente sacro diventano fruibili a tutti e quindi io in quanto artista posso farne ciò che voglio e un credente non deve offendersi perché la mia arte non vuole essere una bestemmia. Il significato di bestemmia si perde e si trasforma in satira. Almeno questo è il mio pensiero. Ovviamente poi ci sono dei limiti, non mi sembra giusto andare nel gratuito e io sono il primo che evita di farlo.»
Sagge parole quelle di Gaspare. Se la libertà di espressione è vitale nell’esistenza dell’essere umano in generale, figuriamoci in quella di un artista.
Quante volte ci si sofferma su presunte offese, invero inconsistenti, per un caparbio rifiuto ad ammettere pacificamente l’esistenza di opinioni e credi diversi. Ed è proprio questo il punto sul quale si incentra il Festival, perché spesso l’accusa di blasfemia diventa solo un pretesto per mettere a tacere persone e verità scomode o riflessioni che non si ha la minima intenzione di affrontare.
Giusy D’Elia
Foto di Giovanni Allocca
Vedi anche: Luca Iavarone padrino della prima serata del Festival Ceci n’est pas un blasphème