La donna è un alieno? Una storia di Distopie femminili
Siamo abituati ad associare all’alieno creature non umane.
Vivono in un futuro non precisato, telefonano casa o comunicano alzando l’indice della mano destra.
Eppure c’è un tarlo che s’insinua da sempre.
Continua ad assillarci, frequentando, ad esempio, l’ora della Lezione di storia Festival nel suggestivo palco del Teatro Bellini di Napoli. Un bisbiglio che penetra nella mente, come il potere dei precorg pensato da Philip Dick.
Di che tarlo parliamo?
La storia, si sa, appartiene al dominio del futuro. Proviamo a disciplinarla con documenti archiviati o volumi ingialliti impilati sugli scaffali delle biblioteche nazionali o delle librerie. Perché…
In una domenica uggiosa di ottobre, la giornalista Valeria Palumbo, redattrice del Corriere della Sera e docente presso l’Università degli Studi di Milano, troneggia sul palcoscenico.
La luce fioca illumina la platea. La scenografia è scarna: il suo corpo e un leggio sottile. Il brusio degli spettatori si affievolisce lentamente. Brevi istanti di silenzio e poi una domanda:
qual è il segreto che si nasconde nell’invenzione del futuro? Perché un futuro al femminile è stato dimenticato dalla storia? Le donne erano incapaci di immaginare una società migliore?
No, non è così. Cominciamo, dunque, con il ripensamento del “futuro”.
Il futuro è una necessità dell’umanità per posticipare le atrocità del presente. Una sorta di cerotto alla nicotina che lenisce pian piano la dipendenza dovuta a un tabagismo incontenibile.
Quando pensiamo al futuro lo immaginiamo come un sorta di Eden. Un luogo fatato, o meglio come la Città Libera di Christiania. Fondata nel 1971 nel cuore di Copenaghen, un gruppo di hippy occupò e ristrutturò gli edifici abbandonati della marina danese. Si dedicarono alla vita bohémien, al riciclo e alla pittura en plein air. Insomma, il futuro come un deposito di speranze e sfavillanti ideali progressisti.
Così, Valeria Palumbo incalza gli spettatori. Ci esorta a legare il tempo con la storia e a ripensare al celebre aforisma di Sant’Agostino: “io so che cos’è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo“.
Si, perché il futuro, secondo il filosofo, è il distendersi dell’anima. Il tempo non esiste, ma esiste la calma con cui chiudere gli occhi e non sentire più alcun rumore. Immaginare qualcosa che nel presente non c’è, qualcosa che ha il sapore di una utopia felice. Pensateci bene, ore passate in ufficio a boccheggiare con un solo scopo: il sogno tanto agognato e posticipato di quel viaggio a Parigi, a Barcellona o a Londra.
Ma l’orizzonte del futuro appartiene solo a coloro che sono consapevoli del loro posto nel mondo. Ed è per questo che le donne, dal celebre romanzo Frankenstein di Mary Schelley fino alla trilogia Divergent di Veronica Roth, hanno immaginato distopie femminili feroci. Per ribellarsi, per conquistare un proprio spazio d’azione nel presente.
Ci sono due elementi che accomunano la visione della donna nei romanzi distopici.
La donna come alieno e il desiderio di costruire una società di sole donne.
La scrittrice italiana Luce D’Eramo, nel romanzo Deviazione, racconta la storia di Lucia. Figlia di un sottosegretario fascista, vuole scoprire la veridicità delle atrocità nei campi di sterminio. A soli diciotto anni, camuffa la sua identità e viene internata a Dachau. Comprende, in questo modo, la brutalità del nazismo e sposa la causa partigiana e antifascista. L’epilogo è drammatico: diviene invalida dopo un bombardamento.
In un’intervista rilasciata anni dopo, Luce D’Eramo confesserà di sentirsi un’aliena. L’alienità è una seconda natura, un’espulsione forzata dal popolo degli umani ma non per l’infermità fisica bensì per l’oblio del femminile nella storia.
Tutte le donne sono aliene. Il corpo femminile, a partire dalla grecità, è stato vissuto in opposizione a quello maschile. Per sottrazione, come ricettacolo di tutte le virtù non possedute. Così anche la gelosia, che per la vendicativa Era o la Deianira sofoclea testimonia una certa philia per gli esseri umani, nella stagione moderna, cambia di segno e di genere diventando delirio come ne l’Otello shakespeariano. Da li, la gelosia si tramuta in puro annientamento e il mostruoso femminile punto d’approdo delle scrittrici moderne.
Mary Shelley scrive il celebre romanzo Frankenstein tra il 1816 e il 1817. Il cielo d’Europa è completamente oscurato. È appena finita la stagione napoleonica, spesso accompagnata da personaggi che annunciano la fine del mondo.
Ha solo diciotto anni e viene invitata nel palazzo ginevrino di Lord Byron. Avevano uno strano modo di divertirsi: ammazzare il tempo scrivendo storie di fantasmi. La scrittrice inglese, non si tira indietro, e crea un capolavoro. Il romanzo non è solo la storia di una creatura errabonda che dissemina morte. In realtà, è la storia di un fallimento.
Il senso sta in queste due parole: generazione e creazione.
La donna è obbligata a generare la prole, a “rinvigorire la stirpe umana”, ma quando una donna crea – opere scientifiche, letterarie o artistiche – diviene un mostro. Quando la donna abdica alla generazione a favore della creazione assume le fattezze di corpo estraneo. Di un alieno, per l’appunto.
Ma siete sicuri che nella generazione non ci sia nulla di così mostruoso?
Mary Shelley non si perdonerà mai la morte della propria madre dopo un emorragia post-partum. Non solo si può uccidere nascendo, ma si può vivere sentendosi un’assassina.
Il libro successivo di Shelley è L’ultimo uomo, scritto nel 1826. Romanzo distopico che profetizza una pestilenza che devasta l’umanità fino a lasciare in vita un ultimo uomo. La locandina, in realtà, ispirò un film muto del 1924, The Last Man on Earth, diretto da J.G. Blystone. Il romanzo verrà stravolto, frutto di un immaginario maschile che desidera specifiche società femminili. Infatti, un’epidemia trucida tutti gli uomini del pianeta, eccetto il protagonista, lasciando in vita solo le donne. Stanato da una criminale in fuga, verrà conteso su un ring tra due senatrici.
In realtà, una ipotetica società di sole donne, escogitata nelle varie distopie femminili, è un esperimento contro fattuale per sovvertire proprio tutte le costrizioni di una socializzazione maschile forzata. Accademie libere in ogni città del pianeta, piazze popolate da donne che discettano di storia, filosofia e scienza, senza chiedere permesso. Luoghi annunciati come reali, concreti dove il potere è distribuito collettivamente.
Scrittrici e artiste come Thea von Harbou e Benedetta Capa, rispettivamente compagna di Fritz Lang e Tommaso Filippo Marinetti, erano consapevoli che per essere nominate in quanto tali e non come “compagna di…” non era necessario solo creare. Ma entrare nei luoghi del potere, sovvertire i rapporti di dominio, fare della creazione un gesto rivoluzionario e, quindi, politico. Non è auspicabile, anzi necessario, liberare la donna dal fardello dell’alienità? Non è auspicabile usare le distopie per ridisegnare questo presente così incerto?
Allora, questa utopia di donne non più aliene può davvero ispirare il presente?
Luigi Celardo
Foto copertina dal profilo ufficiale Fb del Festival delle lezioni di Storia
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