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Gli italiani maestri di gestualità insegnano a esprimersi senza le parole

Hai mai sentito parlare di linguaggio del corpo?

Quando parliamo di “linguaggio”, immediatamente pensiamo alla facoltà verbale umana, ma in realtà il lessema indica qualsiasi sistema di segni e significati (un codice) che comunichi ed esprima informazioni ad un destinatario. 

Una prima grande distinzione è tra linguaggi animali, artificiali (ad es. linguaggio di programmazione, della pittura ecc.) e linguaggi umani. Questi ultimi si distinguono a loro volta in linguaggi verbali e non verbali. Nei primi rientrano le lingue storico-naturali che gli uomini usano per comunicare tra loro nella vita quotidiana; nei secondi sono compresi tutti quei fattori cinesici e prossemici insiti in un atto comunicativo (lingua dei segni, gesti, sguardi, espressioni facciali, aspetti prosodici, pause), ma anche il modo di vestirsi e di truccarsi. Queste componenti possono essere usate consapevolmente o inconsapevolmente. 

Linguaggio verbale e non verbale sono inscindibili. In effetti, ogni qual volta emettiamo dei segnali fonico-acustici, o più semplicemente quando parliamo, inevitabilmente e spontaneamente tutto il nostro corpo è coinvolto. Ed è così che per esprimere gioia e coinvolgimento con l’interlocutore sorridiamo e stabiliamo un contatto fisico ravvicinato oppure al contrario poniamo delle distanze e corrucciamo la fronte impettendoci. 

Tra le varie possibilità espressive, concentriamoci sul linguaggio non verbale cinesico: tale parola deriva dal greco kinesis che significa movimento e, infatti, si usa per indicare il linguaggio del corpo. 

Il linguaggio del corpo è un medium molto potente e veritiero. Il fatto che possa essere un meccanismo involontario ci dà molte più informazioni sull’emittente e sui suoi atteggiamenti rispetto a quanto facciano le parole. Secondo gli studi in merito, sarebbe stato impiegato già nella preistoria per sopperire alla mancanza di un linguaggio verbale e sembra che proprio la sua natura archetipica lo renda un codice universale. 

Ciò è vero, ma c’è anche da dire che ogni cultura crea il proprio linguaggio del corpo: può usare di più e in modo diverso un gesto, così come può risemantizzarlo, crearne di nuovi o addirittura tabuizzarne l’impiego. Pensiamo al saluto: in Italia si usa alzare la mano agitandola a destra e a sinistra, mentre in Giappone si usa fare un inchino.

È risaputo – spopolano meme di sfottò al riguardo – che noi Italiani siamo particolarmente proclivi alla comunicazione gestuale; anzi spesso ne facciamo abuso (ipercinesi), tanto da essere in grado di tradurre intere frasi con i soli movimenti corporali. 

Ci sono delle ragioni storiche alla base di questa nostra caratteristica. 

Prima di raggiungere l’unificazione geo–sociolinguistica, l’Italia è stata frammentata al suo interno e soggetta a diverse dominazioni straniere. Dunque si poneva una doppia esigenza: trovare un codice universale che agevolasse la comprensione nonostante le divergenze dialettali e regionali; e al contempo avere una lingua in codice incomprensibile ai dominatori. Per giunta, si posero problemi simili anche durante i flussi migratori del XX secolo. 

Si pensa che siano stati i Greci, durante la colonizzazione dell’Italia meridionale, ad introdurre una “grammatica” dei gesti; e questa sarebbe anche la ragion per cui si gesticola più al Sud che al Nord.

Un ulteriore fattore di influenza sarebbe stato lo sviluppo della Commedia dell’Arte, genere teatrale che valorizzava la mimica e i gesti dell’arte comica. 

La gestualità italiana non poteva sfuggire al grande specchio della realtà, il cinema, nel cui contenitore è confluito il suo ricco inventario.

Consideriamo i gesti per mandare a quel paese: in Italia e in Francia è tipico “l’ombrello” o “manichetto”, gesto consistente nel piegare un braccio ad angolo retto mentre con l’altra mano si colpisce l’interno del gomito. L’esempio cinematografico più famoso è quello di Alberto Sordi ne I vitelloni. Nei paesi anglofoni invece è comune alzare il dito medio, gesto che si è poi diffuso su larga scala anche da noi.

Non si sa per certo se i due gesti siano legati da una parentela.

Circola un’ipotesi (piuttosto leggendaria) secondo la quale sarebbero nati durante la battaglia di Azincourt del 1415. Gli inglesi si presentarono sul campo di battaglia armati di un arco lungo sconosciuto ai francesi, i quali – convinti della vittoria e sottovalutando l’arma – mostrarono il medio facendo cenno con l’altra mano di tagliarlo. In questo modo irridevano gli inglesi promettendo loro che una volta imprigionati, avrebbero amputato il dito medio impedendo loro per sempre di tirare con l’arco. Qualche altro francese minacciò gli avversari di tagliare loro persino il braccio: da qui “l’ombrello”. 

Al di là di ciò, sembrerebbe conclamata l’origine apotropaica di entrambi. Si tratterebbe di gesti priapei (dal dio greco della sessualità maschile Priapo) che richiamano la forma fallica, simbolo della fertilità, per scongiurare il malocchio.

Le vere origini del medio alzato sarebbero da rintracciare nel mondo antico. Diverse fonti ne riportano la già consolidata presenza con valore offensivo. Uno dei primi esempi compare nelle Nuvole  di Aristofane, per poi proseguire nei componimenti degli epigrammatici – Marziale parla di impudicus digitus (dito impudico), Giovenale di medius unguis (unghia media) – nelle testimonianze di Tacito, che lo attribuisce anche alle tribù germaniche.

Il gesto italiano più simbolico è sicuramente la “mano a cucchiaio”. Questa può esprimere un’ampia gamma di significati: “che vuoi?”, “chi sei?”, “che fai?”, “che ti succede?” se eseguito più lentamente; in maniera più veloce segnala che non si è capito quanto detto dall’interlocutore. Insomma è una sorta di sostitutivo del punto interrogativo che esprime perplessità. Non se ne conosce l’origine precisa. Gadda lo attribuisce agli Apuli, antico popolo osco-italico stanziato in Puglia; mentre per altri sarebbe sorto nel folklore napoletano. La filmografia di Massimo Troisi offre tanti esempi del cucchiaio. 

Ancora, un altro gesto frequente in Italia è quello delle corna. Questo ha varie accezioni in base alla posizione della mano: se è rivolta verso l’alto si allude all’infedeltà; se è verso il basso ha valore apotropaico. 

Il primo uso proviene dal mito greco sulla nascita del Minotauro. Si narra che Pasifae (moglie del re cretese Minosse) avrebbe salvato un toro da un sacrificio in onore di Poseidone. Per punire l’offesa della donna, il dio l’avrebbe fatta innamorare dell’animale, dalla cui unione sarebbe nato l’essere mostruoso. Da qui i cretesi avrebbero adottato il gesto delle corna con il significato a noi tuttora noto.  

Probabilmente di origine meridionale è invece il secondo uso. Si tratta di una scongiura: simbolicamente viene respinta la sfortuna con la forza di un animale che la scaccia a cornate. 

Anche in questo caso gli esempi cinematografici non mancano: da Divorzio all’italiana e altre pellicole della Commedia, ai film di Totò. 

Tanti sono ancora i gesti del repertorio italiano: le dita incrociate, le dita a “V”, il pollice in su, la mano tra i denti… per la precisione, secondo le stime della Dottoressa Isabella Poggi, ammontano a ben 250!

La nostra esuberante gestualità non è un’onta, bensì un elemento della nostra identità storico-culturale di cui andare fieri.   

Giusy D’Elia 

Illustrazione di Giuseppe Armellino

Giusy D'Elia

Disordinata, ansiosa, testarda, logorroica… ma ho anche dei difetti. I pregi scoprili leggendo i miei articoli! Sono Giusy D’Elia, classe 1997. Studio Filologia moderna perché credo nel valore della cultura umanistica. Ho un mondo dentro che ha paura di uscire, ma La Testata mi sta aiutando a farlo esplodere! Sono la responsabile di Tiktok.

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