Parole e altre incertezze. Vite da sfatare tra amore e disamore
Dottore in Filologia moderna, nonché professore di Lettere, Enrico Barbato ci accompagna nel suo mondo introspettivo, fatto di parole e sentimenti sospesi, districati tra la consapevolezza del suo essere e la voglia di comunicare.
Parole e altre incertezze è il primo libro di Enrico Barbato, pubblicato dalla casa editrice Attraverso. L’autore mediante le sue parole crea un legame tra sé e il fruitore, dando vita ad un potere degenerativo ed emozionale che irrompe nella vita stessa di chi legge, quasi come se la sua realtà appartenesse a tutti; quasi come se la sua algida solitudine fosse condivisa dal mondo circostante, mentre si spera un orizzonte migliore. Parlando con l’autore – conoscendolo molto bene – ho deciso di rendere pubbliche le sue parole, ciò che ha preceduto la sua raccolta, le sue ispirazioni e le speranze future.
Data la formazione letteraria e filologica, quanto hanno influito le tue letture sulla stesura del libro?
«Credo abbiano avuto un’influenza su tutto il fronte. I personaggi che ho incontrato nei libri che ho letto nel corso della vita mi hanno accompagnato sempre, tendendomi la mano dove gli occhi vedevano sfocato. Un esempio di quello che sono state per me le letture, lo posso evidenziare con una citazione estrapolata da Into the Wild: “Rischiava di incamminarsi su un sentiero carico di solitudine, ma trovava compagnia nei personaggi dei libri che amava, negli scrittori come Tolstoj, Jack London, e Thoreau”. Ecco, io posso nominare senza ombra di dubbio: Calvino, Pavese, Dostoevskij e Kerouac. Proprio soffermandoci su quest’ultimo, per una vita ho sognato di scrivere lungo il cammino. Ho sognato l’America con una penna come valigia e un foglio come impermeabile. Ho sognato di farlo per tutte le Città invisibili del mondo e ho fatto miei questi luoghi, vivendoci attraverso la scrittura. Si può già notare la differenza di stile, modo, idea: questa è la mia idea di letteratura, un filo universale senza dogmi. Questo lo devo sicuramente alla mia esperienza universitaria, che mi ha plasmato dal punto di vista mentale, rendendomi una persona nuova, in ogni aspetto diversa da quella che ero a diciott’anni».
La raccolta è divisa in tre sezioni. L’hai sempre immaginata così? Hai attuato dei cambiamenti in corso d’opera?
«La raccolta non doveva essere una raccolta. Io non ho mai scritto con lo scopo di farne un corpus unico; tutto è distaccato da se stesso, ma allo stesso tempo tutto è collegabile, perché racconta una vita lunga tre anni. La decisione di dividerla in tre sezioni è arrivata in seguito, quando, dopo i primi riscontri positivi sui social, ho considerato l’idea di inviare quello che scrivevo a delle case editrici, ma con poche speranze, a dire il vero. In prima battuta, le sezioni erano due: amore e disamore, ma mi sono reso conto che il tema era discordante e non univoco, non rappresentava davvero la realtà delle situazioni, poiché si legava a momenti di vita, di solitudine e di immaginazione slegate totalmente dall’amore. L’ho denominata Vite da sfatare e penso sia un nome più che mai indovinato, perché ancora oggi mi interrogo su queste parole, scritte ormai secoli fa, e sulle risposte, che credo non riuscirò mai a trovare. Il bello è e resterà sempre interrogarsi».
Visto che si parla di amore e disamore, le tue poesie hanno un destinatario in particolare? Le reputi universali, o meglio, capaci di entrare nelle esperienze di chi legge?
«Le cose che scrivo sono situazioni che ho vissuto o che avrei voluto vivere. Nel caso delle sezioni dedicate alla vita sentimentale, sì, le destinatarie esistono e non esistono, nel senso che raccontano vicende sia realmente accadute che donne che avrei voluto conoscere, donne che ho atteso per questa mia breve e intensa vita e donne che ho immaginato di volere. Le posso ritenere universali nell’accezione diretta del termine, nel senso che essendo situazioni di vita reale possono in qualche modo essere la vita di tutti. Sfido chiunque a non aver patito un freddo come quello russo per una storia finita, per la perdita di un cappotto che ti riparava dal gelo».
Cos’è per te uno scrittore?
«Alla presentazione di questa raccolta mi è stato chiesto: “cos’è per te la scrittura?” e io ho risposto: “condivisone”. Ecco, lo scrittore è il filtro attraverso il quale la condivisione diventa atto. Io ho sempre scritto per raccontare quello che sono, per dipingermi con le parole e per esternare il mio punto di vista con tutti quelli che volessero ascoltarlo. Tutti possono essere scrittori se raccontano verità. Lo scopo deve essere quello, sempre. Puoi raccontare qualsiasi tipo di storia, ma deve fare i conti con quello che sei. Nessun lettore ammette una bugia, tutti cercano la verità e sanno se menti. Credo siano le due parole chiave: condivisione e verità».
Quali sono stati i momenti più importanti in cui hai sentito il bisogno di comunicare?
«Ho sentito di comunicare molti momenti della mia vita, perché sono comunque una persona che tende a confidarsi, a non chiudersi quasi mai, ma a cercare una mano, un conforto, anche solo una parola. Il lockdown credo sia stato decisivo e credo sia anche il momento più raccontato, perché lì ho capito davvero di voler coinvolgere le persone in quello che stavo facendo, perché il mondo era fuori, ma noi eravamo chiusi all’interno e non volevo perdere il contatto con le persone, che per me è sempre stato di vitale importanza. Tutto questo lo devo all’esperienza universitaria e alle persone che mi hanno accompagnato in quel cammino delicato e tortuoso, il più bello della mia vita. Lì ho capito il valore delle persone, del mondo che mi circondava, della lunghezza della prospettiva, dell’importanza dei miei vent’anni. Non sarà mai abbastanza ricordato quel momento di vita, ma ho cercato nel mio di renderlo eterno».
La scrittura, soprattutto oggi, potrebbe aiutare a migliorare i rapporti umani? In virtù anche dell’alienante emergenza sanitaria che ha inginocchiato il nostro paese?
«Credo, come ho detto prima, che sia stato il primo motivo di comunicazione durante la pandemia. Ha sbloccato tanto, troppo; mi ha aiutato a conoscere nuove persone, a vedere parole dove prima non c’erano. Molte delle poesie che sono all’interno della raccolta sono nate e maturate in questo anno particolare. La scrittura, almeno per me, è sempre stata una condizione naturale di coinvolgimento nei rapporti umani. Ho creato una rete di amicizie, soprattutto all’Università, basata molto sulla lettura, sulla scrittura, su quelle passioni che univano, sul sogno di volare oltreoceano per diventare ricercatori. Credo anche che i ragazzi oggi siano di nuovo vicini al mondo letterario, alla costante ricerca di un posto nel mondo, ma con occhi fissi sulle pagine. Questo grazie anche all’inclusione del mondo letterario in questa comunità di massa; un esempio può essere l’exploit di Zerocalcare su Netflix. Un fumettista sulla più grande piattaforma di streaming. Un tempo era impensabile, ora invece può essere un trampolino di lancio per avvicinare le persone anche alla lettura».
Bolle qualcosa di nuovo in pentola?
«Per ora, ci stiamo godendo questo traguardo. Certo, deve essere vista come una partenza, ma non bisogna neanche scrivere senza contenuti. Ho veramente dato tutto quello che avevo per scrivere quella raccolta, senza risparmiarmi. Continuerò a scrivere, questo è sicuro, ma non solo, e si va sempre alla costante ricerca delle vite che non ho vissuto. Nel cassetto ci sarà sempre il sogno di un romanzo, quindi mai dire mai!».
Marianna Allocca
Foto copertina concessa da Aniello Loffredo
Vedi anche: L’insegnamento è la mia ragione di vita