Abracadabra, conosciamo il mondo magico
Il magismo in quanto fenomeno culturale è stato oggetto di numerose indagini, in particolare nell’Ottocento con lo sviluppo dell’antropologia e dell’etnologia.
Troppo spesso il pensiero magico è stato liquidato semplicisticamente come illogico, primitivo, psicotico o ancora come banale ciarlataneria.
Tutte queste interpretazioni hanno un comune denominatore, ossia un approccio diremmo oggi eurocentrico, troppo legato alla mentalità occidentale, al suo modo di operare, distinguere e guardare la realtà, nella convinzione che il pensiero magico sia agli antipodi della razionalità dell’Io occidentale.
A ribaltare questa prospettiva è l’etnologo napoletano Ernesto de Martino. In particolare nella sua opera Il Mondo magico, pubblicata nel 1948, l’autore ricostruisce un quadro del magismo come fenomeno culturale fondamentale per lo sviluppo dello spirito umano.
Attraverso lo studio di svariate pratiche magiche e sciamaniche presso le popolazioni indigene della Siberia artica e subartica, del Nord America e della Melanesia come i Malesi, i Tungusi, gli Ainu e altre ancora, de Martino riesce a svelare le ragioni sottostanti tali riti ma soprattutto può mettere in luce quello che definisce “il dramma della presenza”, dell’esserci di un individuo.
Comprendere cosa significa che l’esserci rischia di perdersi è di fondamentale importanza perché ci permette di comprendere i fenomeni magici non più relegandoli al margine della civiltà occidentale come privi di senso, ma restituendo a queste pratiche un loro preciso senso rituale, culturale e salvifico, necessario ai popoli indigeni per mantenersi in vita ed organizzare razionalmente il mondo.
Alla base di riti e magie vi è secondo lo studioso, l’esigenza di dar forma e ordine, di plasmare culturalmente il proprio mondo che altrimenti non sarebbe altro che caos informe.
Fondamentale per la sopravvivenza di questi popoli è garantire stabilità e equilibrio al proprio essere o “presenza” di fronte ad un mondo ignoto e ad eventi traumatici.
Con il termine “presenza” intendiamo la consapevolezza del proprio Io, della propria vita con tutte le credenze e aspirazioni, il proprio “Esserci”, diremmo in senso heideggeriano; quell’essere nel mondo che si mantiene e agisce in esso.
Il punto fondamentale per de Martino è comprendere la differenza tra l’Io dell’uomo moderno europeo e l’anima magica delle popolazioni in questione.
La coscienza occidentale è un dato già pienamente strutturato, si fonda sul principio di autonomia della persona. Vi è quindi una netta consapevolezza della distinzione Io-Mondo; quella che hegelianamente possiamo definire autocoscienza coglie gli oggetti del mondo nella loro essenza e forma e il reale nella sua unità può essere adeguatamente distinto dall’unità dell’Io.
Quest’autocoscienza non può essere applicata anche all’uomo magico, la cui presenza costituisce ancora un problema culturale, è una realtà labile, in fase di costruzione, non è ancora decisa, garantita una volta per tutte, ossia non ha dei confini ben definiti di identità.
Perciò la presenza dell’uomo magico rischia costantemente di perdersi nel mondo, confondendosi con esso, oppure di chiudersi in se stessa dimenticandosi di ciò che la circonda: sono i due poli opposti di quello che de Martino definisce “il rischio della presenza”.
Ed è qui che intervengono i riti e le pratiche magiche, spesso presiedute da uno sciamano a capo della comunità, che come un vero e proprio “Cristo Magico” ha il ruolo di guidare la comunità attraverso questi rituali per poter superare eventi drammatici o traumatici.
Le pratiche magiche hanno il compito di ricostruire l’integrità perduta dell’anima che rischia di abdicare di fronte al mondo, dinanzi ad un determinato contenuto che può risultare spaventoso, doloroso, traumatico.
Come scrive l’autore, “nel mondo magico l’individuazione non è un fatto, ma un compito storico, e l’esserci è una realtà condenda. Di qui un complesso di esperienze e di rappresentazioni, di misure protettive e di pratiche, che esprimono ora il momento del rischio esistenziale magico, ora il riscatto culturale, e che formano, nella loro drammatica polarità, il mondo storico della magia”.
Lo scopo dei rituali è quello di rivivere il momento drammatico per poterlo dominare, controllare a proprio piacimento per rinsaldare la propria presenza di fronte a ciò che minaccia di inghiottirla.
L’evento traumatico attraverso queste pratiche magiche simboliche viene incluso in un “universo destorificato”, mitico, ossia diviene parte di un immaginario collettivo, archetipico, di conseguenza meno traumatico e doloroso per il singolo individuo che si ritrova non più isolato nel suo dramma, ma diviene parte di una collettività che ha superato efficacemente la crisi.
In conclusione, le pratiche magiche sono quindi delle “tecnologie” secondo de Martino, fondamentali per la costituzione dell’uomo come noi lo conosciamo. Attraverso i complessi di rituali e il ricorso ai miti e alla loro reiterazione, l’uomo magico è stato capace di preservare il suo esserci e di costituire per lui un mondo definito e culturalmente plasmato.
Seppure la coscienza occidentale ha ormai superato lo stadio dell’incertezza della presenza e del mondo e considera mera superstizione le pratiche magiche, anche l’esserci dell’uomo moderno può perdersi, come nel caso di traumi o psicosi, ma non solo.
Il problema quindi, consiste nel “capire quali siano le nuove tecniche protettive, il nuovo complesso di esperienze e rappresentazioni che garantiscono una qualche stabilità alla presenza contemporanea”.
Infatti anche per l’Occidente razionalizzato e tecnicizzato, in fondo, a ben vedere, seppure in forme diverse da quelle del mondo magico, “l’integrazione e la reintegrazione dell’uomo nella società non cessano di essere problematiche e continuano a postulare una soluzione simbolica”.
Benedetta De Stasio
Vedi anche: Telepatia: l’ossimoro tra psicologia e magia