Ravensbrück e l’inferno delle donne incinte
Ravensbrück fu un campo di concentramento progettato per eliminare esclusivamente le “donne non conformi”, le quali avrebbero potuto contaminare la “razza ariana”.
Le vicende accadute a Ravensbrück sono tra quelle meno indagate dello sterminio. Per la mancanza di documenti e per le scarse testimonianze, l’esistenza del campo fu accertata solo negli anni Novanta.
È un capitolo nascosto della storia dei crimini nazisti che non deve essere ignorato.
Situato in un villaggio a nord di Berlino, il lager era destinato alla “detenzione preventiva femminile”. Furono almeno 132.000 le donne che passarono a Ravensbrück perché giudicate “inutili” e solo una piccola percentuale era costituita da ebree: si trattava soprattutto di persone con disabilità fisiche o mentali, oppositrici politiche, lesbiche, Rom, testimoni di Geova.
Dalle deportazioni, a cui seguivano crudeltà e orrori, non furono risparmiate le madri con bambini piccoli né le donne incinte, la cui principale destinazione era la morte indotta dalle camere a gas.
Ma, nel 1945, a Ravensbrück sono state registrate ben 365 nascite.
Molti dei neonati venivano ammazzati dopo il primo vagito, ancor prima di aprire gli occhi al mondo, bruciati, fucilati, annegati, strangolati, usati come tiro al bersaglio, sotto lo sguardo agonizzante delle madri. Gli altri perivano di fame e di sete, senza raggiungere i tre mesi di vita.
La morte del proprio bambino rappresentava solo l’apice di mesi di atroci torture per le madri deportate. La sopravvivenza era resa impossibile. Malgrado la gravidanza avanzata, stupri, abusi e maltrattamenti costituivano la realtà quotidiana di tutte queste donne. Malate e denutrite com’erano venivano mandate nei campi a svolgere lavorare massacranti, rischiando di morire in ogni momento. Qualcuna tentava di nascondere il ventre che si ingrossava, così da poter vivere un po’ di più.
Alla maggior parte veniva imposto l’aborto, condotto fino all’ottavo mese e senza rispetto di norme igieniche, ragioni che lo trasformavano in un modo per disfarsi tanto del nascituro quanto della madre. Le più fortunate tenevano il bambino, ma spesso diventavano cavie di esperimenti disumani in una “sala parto” appositamente realizzata: si rimuoveva loro l’utero o si procedeva alla sterilizzazione tramite l’iniezione di sostanze chimiche che procuravano dolori lancinanti. Così si testava l’efficacia dei nuovi metodi tedeschi.
Qualora si riuscisse a partorire e a salvare il bambino dall’assassinio immediato da parte delle SS, lo si doveva nascondere, nel migliore dei modi. E si usciva per andare nei campi, abbandonando il neonato gracile e indifeso nelle baracche dei letti, con la speranza di ritrovarlo vivo al ritorno.
Non ci sono considerazioni da fare, solo fatti che devono essere tenuti bene a mente.
Ricordiamo per non dimenticare.
Maria Paola Buonomo
Fonte copertina viaggiatoriignoranti.it
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