I fiori blu, un viaggio allegorico nella fantasia di Raymond Queneau
I fiori blu è un romanzo di Raymond Queneau, pubblicato nel 1965.
Unico e originale, conferma la fama di Queneau come uno degli autori più geniali del Novecento.
Un calderone di simbologie e di generi – a metà tra storia, favola, introspezione psicoanalitica e filosofia – che riflette sui temi fondanti della vita umana: dal senso di colpa al rapporto col tempo, dal confronto con la religione cristiana al ragionamento sulla psicologia dell’individuo.
È un’opera multiforme intessuta di citazioni letterarie e particolare soprattutto per il linguaggio innovativo e sperimentale. Si tratta di un esercizio di stile e di erudizione giocato sulla commistione tra linguaggi e registri diversi.
L’autore conia neologismi, mescolandoli con arcaismi e aulicismi, riuscendo così a creare una lingua nuova e personale che, nonostante il calcolo meticoloso sottostante, ottiene un piacevole effetto di spontaneità.
La sua eccentricità stilistica può renderlo astruso a primo impatto, tant’è che persino Calvino – il primo traduttore italiano – ebbe delle difficoltà durante la traduzione; ma se ci si lascia andare alla totale immersione nella lettura, si rivela essere un’opera profonda e divertente, un classico da tenere sul comodino e da consigliare agli amici.
Riportiamo il famoso ed esilarante incipit con il quale si apre il romanzo.
«Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente.
Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevancalvadòs. Il duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti. Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevano calvados».
La traduzione che leggiamo è merito, per l’appunto di Calvino, il quale ha saputo trasporre la freschezza dell’originale nella versione italiana, nonostante le necessarie modifiche.
Non è un caso che fu proprio Calvino a cimentarsi nell’impresa, dal momento che era affine per idee e stile al movimento letterario capitanato dallo stesso Queneau: l’Oulipo.
Qual è uno degli argomenti immancabili quando si parla di libri? La trama ovviamente!
Ebbene, la trama de I fiori blu è tutt’altro che lineare. Anche questa, come il linguaggio, scardina le convenzioni narrative canoniche, sviluppandosi su due piani narrativi diversi – ci sono due protagonisti di due epoche diverse – che finiscono per intrecciarsi.
Attenzione: zona spoiler!
Da una parte abbiamo il Duca d’Auge, signorotto medievale che spadroneggia sul suo stuolo di servi e sudditi nel 1264. Dall’altra, siamo nel 1964 e incontriamo Cidrolìn, un vecchietto angosciato dal senso di colpa per un delitto non commesso (ma costatogli comunque mesi di prigionia) che abita su un’imbarcazione in disuso ormeggiata nel mezzo della Senna.
Sono due individui agli antipodi: sanguinoso, iracondo e impulsivo il primo; riflessivo, statico e pacifico il secondo. Eppure il caso, in veste dell’autore, vuole che i due siano destinati a incontrarsi.
Il Duca e Cidrolin condividono lo stesso nome (Joachin) e sembrano essere legati da uno strano rapporto onirico: osservano la vita dell’altro scorrere nei propri sogni.
Il Duca, dopo una serie di vicissitudini imbevute di clichè medievali (crociate, scontri con il papato, battute di caccia, amicizie pericolose con stregoni e alchimisti), in compagnia di due cavalli parlanti, intraprende un viaggio attraverso il tempo di 125 anni alla volta, avvicinandosi sempre più al suo omonimo amico di sogni.
Nel frattempo Cidrolin conduce la sua solita monotona e grigia vita. Trascorre le sue giornate a chiacchierare con Lalice – una donna che in sostanza gli fa da badante – e a cancellare una scritta ingiuriosa («assassino») che rinviene quotidianamente su di un cancello vicino alla sua “abitazione”.
Uno dei vicini di Cidrolin, Labal, stanco delle angherie che il vecchietto è costretto a subire, decide di investigare personalmente per scoprire l’autore del murales accusatorio.
È nelle ultime pagine del romanzo che avviene il fatidico incontro. Il viaggio nel tempo del Duca d’Auge giunge al capolinea nel 1964, laddove lo aspetta Cidrolin. Quest’ultimo si offre di ospitare per la notte lo stravagante viaggiatore, il quale per ringraziarlo decide di dargli una mano a smascherare il responsabile delle scritte offensive.
Colpo di scena: si scopre che il colpevole è Cidrolin in persona, il quale motiva la sua azione sostenendo di averla commessa perché gli permette di passare il tempo.
In questo circolo di eventi assurdi, non lascerà troppo a bocca aperta il finale: il Duca d’Auge, indispettito dal comportamento dell’ospitante, si impadronisce dell’imbarcazione – mentre Cidrolìn e Lalice scappano a bordo di un canotto – e salpa lungo le anse del fiume, per poi ritrovarsi quasi come per magia nuovamente nel 1264. La storia si chiude ciclicamente riavvolgendosi su se stessa.
Come spiegare un libro così atipico che si presta a molteplici interpretazioni?
Innanzitutto, si può dedurre una lettura psicologica secondo la quale i protagonisti incarnano due parti della stessa psiche. Cidrolin rappresenterebbe un ego fannullone; il Duca d’Auge l’animalesco e pulsionale Es; mentre il vicino-investigatore equivarrebbe alla figura del super-io.
E ancora, evidente è la matrice nietzschiana che sottostà al volume: l’eterno ritorno dell’uguale, con un finale che ci rimanda dritti dritti al punto di partenza; lo scontro tra apollineo e dionisiaco che è personificato dai due Joachin attorno cui ruota l’intreccio.
Numerosi poi sono anche i riferimenti al mondo della religione e dell’occulto: dal cosmo medievale costellato di assalti agli infedeli, processi per stregoneria e ricorso a trasmutazioni alchemiche; fino ai giorni nostri, con l’insostenibile peso del senso di colpa che pare trascinare Cidrolin in un insensato vortice di autoaccuse.
A questo punto vi sarà sorta una legittima curiosità: cosa c’entrano “i fiori blu” del titolo?
Sembra che questo sia stato ripreso da Baudelaire e che sia un’espressione ironica usata in francese per riferirsi alla purezza perduta delle persone romantiche, idealiste e nostalgiche.
L’espressione compare solo all’inizio e alla fine a sancire la circolarità dell’opera.
Queneau con I fiori blu ha elevato alla massima potenza la sua infinita creatività, regalandoci un esperimento narrativo irripetibile che rientra appieno nella categoria dei capolavori della letteratura mondiale.
Giusy D’Elia