Com’è nata la Scuola siciliana? Origini e storia della prima lirica italiana
Un argomento trattato migliaia di volte in tutti i gradi scolastici è proprio la Scuola siciliana.
Fondata dall’imperatore Federico II di Svevia, rappresenta la prima testimonianza di poesia in volgare del nostro paese.
Andiamo a scoprirla insieme.
Prima di tutto partiamo dal nostro amato Federico II, un uomo illustre, acculturato, definito “Stupor mundi” per eccellenza. Conosceva diverse lingue e accoglieva alla sua corte molti letterati dell’epoca. Proprio da lì partì la celebre poesia siciliana, tra il 1229 ed il 1226.
Vediamo in che modo.
Tale genere si rifaceva alla lirica dei trovatori, quindi quello provenzale, anche se non è ben chiaro se questi poeti avessero avuto contatti con l’ambiente siciliano. In ogni caso, ci fu un legame con questo tipo di poesia basata sull’amor cortese, dove il sentimento era legato al cuore nobile e l’amante si trovava in uno stato di servilismo rispetto alla donna (quasi sempre sposata).
La Scuola siciliana riprendeva alcuni punti di questa lirica, mentre si distaccava da altri. Innanzitutto la scrittura utilizzata era il siciliano aulico ed elevato, la poesia non era accompagnata musicalmente e il tema trattato era esclusivamente il Fin Amor, mentre i trovatori utilizzavano anche temi civili o morali.
L’uomo si trovava in condizione di servitore rispetto alla dama, descritta con immensa bellezza fisica e morale. Spesso veniva corrisposto, altre volte si rassegnava al contrario. La donna, quasi sempre spostata, era il centro della poesia e della vita dell’artista.
Insomma, erano vere e propri lodi d’amore.
Questa scuola, composta da diversi poeti, vedeva come maggiore componimento utilizzato il sonetto, che nasce proprio alla corte di Federico II. Anche la canzone e la canzonetta, ripresi dai testi provenzali, vengono valutati.
Non ci sono giunte molte notizie sugli artisti della Scuola siciliana, ma non possiamo far a meno di citare il celebre Iacopo da Lentini.
Considerato da molti l’inventore del sonetto, era tra i principali esponenti della lirica siciliana. Lo stesso Dante lo elogia sia nel De vulgari eloquentia che nella Divina Commedia.
La sua produzione letteraria è legata maggiormente a temi amorosi, quindi ancora una volta ripresi dall’amore cortese provenzale, ma molti sonetti sono dedicati anche a temi morali e filosofici sempre su base sentimentale.
Ovviamente la lingua in cui scrive è il siciliano elevato e depurato da termini rozzi, anche perché l’elogio alla donna amata non poteva certo essere fatto con parole basse o plebee.
Andiamo però a vedere praticamente le abilità di questo poeta.
Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.
Il sonetto, ripreso poi da molti artisti successivi tra cui lo stesso Dante, si basa sul tipo rapporto di vassallaggio tra il poeta e la donna amata dove lui cerca di raggiungere la beatitudine del Paradiso. Succede poi che la donna viene elevata talmente tanto da entrare in conflitto con Dio, perciò Iacopo si scusa ma rimane comunque dell’idea che l’amata è dotata di bellezza paradisiaca.
Ricorda molto “Al cor gentil rempaira sempre amore” di Guinizzelli, il primo testo del Dolce Stil novo. Ma questa è un’altra storia che magari racconteremo più avanti.
Torniamo ai nostri poeti siciliani.
Un celebre notaio della corte siciliana era Pier Della Vigna, poeta a cui sono attribuite due canzoni e un sonetto. Appare nella Divina Commedia dove Dante lo incontra all’Inferno tra i suicidi, poiché si tolse la vita dopo esser stato accusato di tradimento all’imperatore.
La sua opera principale è l’Epistolario, ma un celebre sonetto è “Però ch’amore non si pò vedere”.
Però c’Amore non si pò vedere
e non si tratta corporalemente,
manti ne son di sì folle sapere
che credono c’Amor[e] sia nïente.
Ma po’ c’Amore si face sentire
dentro dal cor signoreggiar la gente,
molto maggiore pregio de[ve] avere
che se ’l vedessen visibilemente.
Per la vertute de la calamita
como lo ferro at[i]ra no si vede,
ma sì lo tira signorevolmente;
e questa cosa a credere mi ’nvita
c’Amore sia, e dàmi grande fede
che tutor sia creduto fra la gente.
Il poeta, ancora una volta, si espone sull’amore. Il sentimento, che per molti è astratto, per lui ha concretezza in quanto padroneggia le persone e pesa nel cuore della gente.
Insomma, il tema amoroso ricorre di continuo nella poesia siciliana e l’amore sembra essere vita per i poeti.
Tanti altri artisti si sono susseguiti alla corte siciliana, ognuno ha dato il suo contributo e la sua evoluzione ha dato vita ad altri periodi illustri nella storia della letteratura.
La lirica di Federico II però non ha avuto un lieto fine.
I testi sono stati ricopiati da copisti toscani che hanno dato il loro contributo linguistico alle poesie cambiandole completamente per renderli più leggibili. La vera poesia siciliana non è giunta a noi nella sua pienezza, con i vocaboli aulici ed elevati che la contraddistinguono.
In realtà, un solo testo (forse) è arrivato nella sua forma originale. Da questa poesia di Stefano Protonotaro, si possono notare le differenze rispetto alle copie dei manoscritti siciliani in toscano.
Pir meu cori allegrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joi d’amuri è statu,
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l’omu à rasuni di diri,
ben di’ cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri;
dunca ben di’ cantari onni amaduri.
E si per ben amari
cantau juiusamenti
homo chi avissi in alcun tempu amatu,
ben lu diviria fari
plui dilittusamenti
eu, chi su di tal donna inamuratu,
dundi è dulci placiri,
preiu e valenza e juiusu pariri
e di billizi cuta[n]t’ abondanza,
chi illu m’è pir simblanza
quandu eu la guardu, sintir la dulzuri
chi fa la tigra in illu miraturi;
chi si vidi livari
multu crudilimenti
sua nuritura, chi illa à nutricatu,
e si bonu li pari
mirarsi dulcimenti
dintru unu speclu chi li esti amustratu,
chi l’ublia siguiri.
Cusì m’è dulci mia donna vidiri:
chi ‘n lei guardandu met[t]u in ublianza
tutta’altra mia intindanza,
sì chi instanti mi feri sou amuri
d’un culpu chi inavanza tutisuri.
Di chi eu putia sanar;
multu legeramenti,
sulu chi fussi a la mia donna a gratu
meu sirviri e pinari;
m’eu duitu fortimenti
chi quandu si rimembra di sou statu
nu lli dia displaciri.
Ma si quistu putissi adiviniri,
ch’Amori la ferissi de la lanza
chi mi fer’ e mi lanza,
ben crederia guarir de mei doluri,
ca sintiramu equalimenti arduri.
Purriami laudari
d’Amori bonamenti,
com’omu da lui beni ammiritatu;
ma beni è da blasmari
Amur virasementi,
quandu illu dà favur da l’unu latu,
chi si l’amanti nun sa suffiriri,
disia d’amari e perdi sua speranza.
Ma eu suf[f]ru in usanza,
chi ò vistu adessa bon sufrituri
vinciri prova et aquistari hunuri.
E si pir suffiriri,
ni per amar lialmenti e timiri,
homo aquistau d’Amur gran beninanza,
digu avir confurtanza
eu, chi amu e timu e servi[i] a tutt’uri
cilatamenti plu chi altru amaduri.
La canzone riprende tutti i temi provenzali da cui deriva la poesia siciliana. Notiamo il lamento del poeta non corrisposto e il suo servilismo per la donna amata. In particolare la dama è paragonata alla tigre perché, secondo i bestiari medievali, l’animale, data la bellezza, si specchiava dimenticandosi del resto.
Insomma, la questione rimane aperta, ma una cosa è certa.
La Scuola siciliana ha dato vita alla prima poesia in volgare elevato in Italia, e la ricorderemo (per quanto possibile) attraverso le testimonianze degli autori che ne hanno fatto parte.
Martina Maiorano
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