Nei luoghi che abito
Si gela a Gianturco.
Le efelidi sul volto pallido sono incantevoli. Ti ammiro in quel cartellone pubblicitario. Quante volte mi dicevi che la folla è pesante; palla di piombo per i miei piedi così lenti, passeggeri troppo rumorosi nel vagone ingombro.
Non esiste più alcuna massa amorfa, solo individui feriti.
Coltelli affilati hanno tagliato nella carne, sulla banchina, e non c’è più nessuno. Archi al neon e grate tra i porticati.
Quante volte mi sono chiesto perché mi parlavi d’ambiguità. Nell’assenza c’è ordine, me lo sussurravi sempre.
Ordine, stabilità e simmetria. Solo così c’è bellezza, vero?
Perché ora ricominci con i gradini sudici?
Parli delle pareti imbrattate?
Non è letame. È pittura e orme lasciate dalle suole di scarpe. Ammiri quelle anonime mani primitive, ti hanno sempre ricordato quelle di tuo padre sulle ginocchia nude. Ora sono smorte; i calli ai polpastrelli ti rovinano la pelle.
Posso confessarti un segreto?
Ricordi quando il materasso ruvido mi solleticava la schiena? Le braccia piegate come un contorsionista. Dovevo svuotare la vescica e il pavimento era ghiacciato. Mi sono lasciato andare: non opponevo alcuna resistenza. Inseguivo il solco della tua schiena nuda che s’inerpicava verso la nuca. La mano annaspava intorno alla tua gamba. Anche se le mia dita erano lontane, avvertivo la tua presenza come un posarsi di farfalla. Ecco, desideravo con dolcezza spingere tutto il palmo, e impenetrabile era il tuo sguardo con il petto appena mosso dal respiro.
Se chiudo gli occhi, il mio corpo si allinea al tuo. Inarco i piedi, irrigidisco i polpacci, sollevo le spalle e fisso un punto preciso. Il tuo corpo assomiglia forse di meno alle giunture del mio?
Gianturco spazza via la brina estiva. E a te darò un nome: Claude.
Non hai paura. Né dell’amore, né del fascino indiscreto dell’umanità silenziosa.
Non hai paura del secco e dell’umido.
Non t’importa della notte.
Il quadrato di cielo mi attenua tutti i fragori, solo una lampada al neon si dibatte nel vuoto, lontano dai vagoni, dalla strada, dagli uffici, dalle stamberghe in rovina.
Non basta a se stessa, avrebbe bisogno di troppe compagne.
Eppure, qui al buio, da solo, il mio corpo è tranquillo e si sente finalmente padrone.
Testo di Luigi Celardo, foto di Giovanni Allocca
Vedi anche: La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di mangiare