Eros e civiltà, l’emancipazione parte dalla sensibilità
“La concezione dell’uomo che emerge dalla teoria freudiana, è il più irrefutabile atto d’accusa della civiltà occidentale- ed è al tempo stesso, la difesa più incrollabile di questa civiltà”.
Così Herbert Marcuse introduce il suo Eros e Civiltà la cui prima edizione risale al 1955.
L’opera del filosofo tedesco, esponente della scuola di Francoforte, è innervata dall’intenso dialogo con Freud; la polemica con lo psicoanalista austriaco costituisce il pretesto filosofico su cui Marcuse costruisce la sua teoria della civiltà.
Nella prima parte di Eros e civiltà Marcuse fa i conti con i limiti della teoria della civiltà freudiana, riferendosi specificamente al Freud de Il disagio della civiltà.
La seconda parte del testo rappresenta invece la conseguente parte costruttiva dell’opera in cui il filosofo mostra come la teoria sociale di Freud possa essere superata, aprendo così alla definizione del suo orizzonte teorico ma soprattutto pratico di liberazione ed emancipazione della sensibilità umana all’interno della società capitalistica.
Marcuse avvia la sua acuta analisi partendo, come anticipavamo, da una critica fondamentale alla teoria della nascita della civiltà di Freud.
Secondo lo psicoanalista la civiltà e la cultura sono possibili soltanto a partire da una repressione della struttura istintuale dell’individuo; in termini freudiani diciamo che il principio di piacere (ossia quella struttura psichica che tende costantemente e in modo immediato alla soddisfazione istintuale) deve essere assoggettato al principio di realtà ossia alle esigenze sociali del vivere comunitario.
Per questo motivo sia a livello ontogenetico, sia a livello filogenetico, c’è sempre stato bisogno per Freud di una deviazione del percorso istintuale psichico, modificandone però non soltanto gli scopi ma anche la sostanza stessa; in questo modo l’individuo viene fin dall’età infantile abituato al differimento dei desideri in funzione del suo sviluppo culturale.
Secondo Freud infatti, le pulsioni istintuali, se lasciate fluire liberamente e senza freni, non possono che scontrarsi con le costruzioni sociali, con la cultura; poiché l’Eros se non limitato ha in sé una forte carica distruttiva, trasformandosi così in Thanatos.
Questa repressione della sfera pulsionale, dell’Es sarebbe per lo psicoanalista resa necessaria dall’Ananke, ossia dalla penuria, dalla scarsità di mezzi e risorse tali da soddisfare le esigenze del collettivo, senza l’istituzione del lavoro dei singoli, che vada a soppiantare il libero soddisfacimento degli istinti; quindi in ultima analisi, come giustamente nota Marcuse, la repressione è spinta da motivazioni economiche.
La sostituzione del principio di piacere col principio di realtà costituisce il grande trauma collettivo della civiltà; Freud stesso era cosciente dei problemi che la repressione istintuale porta con sé, basti pensare a tutta la sua analisi sulle nevrosi.
L’inconscio infatti preserva la memoria di quel passato remoto in cui le istanze psichiche desideranti erano libere di essere soddisfatte; l’Eros non è stato pienamente represso, ma vive nel subconscio e cerca continuamente di tornare a galla e di manifestarsi nella vita cosciente dell’uomo sotto forme inaspettate, come ad esempio nevrosi, tic, lapsus o nel sonno con i sogni, quando la censura operata dal SuperIo, che ha introiettato il principio di realtà, si allenta.
Si tratta del cosiddetto “ritorno del rimosso” nella storia, mentre per Freud però bisogna cercare di sopprimere il più possibile questo ricordo, per Marcuse al contrario proprio la memoria di quel passato felice libero dalle strutture e sovrastrutture del reale costituisce la chiave per una liberazione della sensibilità annientata.
Come infatti nota Marcuse, questa repressione istintuale non porta mai ad una pacificazione definitiva della psiche individuale, anzi al contrario “le restrizioni perpetue imposte all’Eros finiscono coll’indebolire gli istinti di vita, e così rafforzano e liberano le forze stesse contro le quali esse furono chiamate in campo, le forze di distruzione”; questa è la dialettica autodistruttiva della civiltà che il filosofo analizzerà nel testo.
Marcuse riconosce l’enorme contributo di Freud nell’aver intuito la profonda connessione esistente tra barbarie e cultura, mostrando quindi la falsità dell’identità apparentemente necessaria di ragione e repressione.
Tuttavia il filosofo tedesco riconosce anche i limiti della teoria freudiana, soprattutto i rischi insiti in essa a livello socio-politico.
In primo luogo Marcuse riporta i concetti e le categorie freudiane sul piano storico-sociale, traendo delle ulteriori conseguenze dalle premesse teoriche dello psicoanalista.
Marcuse parlando di repressione, distingue la repressione fondamentale, ossia un minimum di “modificazioni istintuali” necessarie per la sopravvivenza della specie dalla repressione addizionale, cioè quel surplus di restrizioni dovute ad un potere o dominio sociale.
Queste restrizioni ulteriori, addizionali appunto, sono frutto non del principio di realtà (poiché non ne esiste solo uno, ma ogni epoca storica ha un suo specifico principio di realtà), ma del principio di prestazione, ossia il principio di realtà dominante sotto un’economia capitalistica.
Quest’argomentazione è fondamentale nell’economia complessiva dell’opera poiché permette a Marcuse di sostenere che la società capitalistica con il suo principio di prestazione basato sul continuo profitto, sulla competizione sfrenata, sulla divisione amministrata di lavoro e “tempo libero”, con la sua crescente irrazionale razionalizzazione fine a sé stessa ha imposto agli individui una serie di restrizioni e un quantum di repressione non necessario per mantenere in vita la civiltà, ma per reiterare il dominio sociale.
Storicizzando quindi il principio di realtà freudiano e mostrando come quel plus di repressione non sia necessario, Marcuse immagina l’esistenza di un principio di realtà alternativo a quello di prestazione e la conseguente possibilità di una liberazione istintuale.
Marcuse prospetta una liberazione in primo luogo del corpo e dei suoi sensi repressi; liberando l’Eros non semplicemente come liberazione sessuale ma in un senso molto più ampio, come energia non distruttiva perché non più sottoposta a repressione, un Eros capace di unire, creare comunità, legami, aggregazione sociale, in breve civiltà.
Attraverso la trasformazione del lavoro percepito come fatica alienante e fine a sé stessa in attività che soddisfi i propri bisogni e le proprie passioni affinché queste non siano più relegate nella nostra vita come semplici hobby per ricaricare le energie da un lavoro sfiancante.
Da un lato l’autosublimazione della sensualità, dall’altro la desublimazione della ragione, solo così si possono armonizzare questi due impulsi apparentemente inconciliabili, in una dimensione di libero dispiegamento delle facoltà desideranti, di quell’istanza di felicità, della fantasia conservate nell’Inconscio.
La dimensione estetica in quest’ottica gioca un ruolo fondamentale nella creazione di una civiltà non repressiva in quanto permette all’individuo di ritrovare nell’esistenza un suo spessore, così da non esser più schiacciati in una sola dimensione, quella del lavoro e della produzione ininterrotta.
Marcuse utilizza le figure di Orfeo e Narciso per esemplificare il “Grande Rifiuto” di un individuo liberato dal giogo della plus repressione (che trova invece il suo campione in Prometeo) in armonia con ciò che lo circonda in uno stato estetico che si ribella all’angoscia della transitorietà, superandola nel dispiegarsi delle facoltà sensoriali del gioco.
Benedetta De Stasio
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