Il canone greco, la bellezza come armonia di corpo e anima
Il concetto di bellezza è qualcosa che è cambiato e ha assunto mille volti diversi a seconda dell’epoca, del luogo e della cultura.
Non possiamo definire in modo univoco e universalmente valido la bellezza.
Naturalmente la bellezza è soggettiva, ciascuno trova bello qualcosa che ad un altro invece magari disgusta, tuttavia resta il fatto che ogni paese, cultura, popolo ha avuto ed ha dei propri canoni, un proprio ideale di bellezza oggettiva.
Oggi scopriremo cosa la civiltà greca antica considerasse oggettivamente bello.
Le prime testimonianze di poeti greci come Esiodo e Omero trattano il tema della bellezza ma senza darci delle indicazioni specifiche al riguardo, come rileva Umberto Eco nella sua Storia della bellezza.
È a partire dal V secolo circa, nell’età dell’Atene democratica di Pericle, con lo sviluppo delle arti e delle tecniche, che possiamo parlare di un ideale estetico greco.
Per cominciare è bene fare una premessa, ossia che la bellezza nell’antica Grecia non si esprimeva in modo univoco, ma rappresentava un insieme di idee e concezioni piuttosto complesso ed eterogeneo.
Possiamo partire col definire il bello (kalòs) come ciò che suscita una sensazione (aisthesis da cui estetica) piacevole, che appaga la vista e dà soddisfazione.
La concezione greca di bellezza nel suo senso comune si rifà ad un ideale di armonia, proporzione tra le parti (di ascendenza pitagorica) e naturalezza (idee teorizzate nel 450 A.C con il Canone di Policleto) che si riflette nelle varie arti, quali ad esempio poesia, musica e scultura.
Per quanto concerne la scultura e in particolare la riproduzione dei corpi umani, risulta evidente come si cercasse di raggiungere la realisticità vivente e dinamica della fisiologia umana in tutti i suoi dettagli.
In accordo con quella concezione canonica della bellezza come armonia e proporzione tra le parti, possiamo notare come i corpi siano perfettamente strutturati e armonici catturati in un momento di tensione oppure rilassati ma sempre curati nei minimi dettagli anatomici. Un esempio celebre su tutti è rappresentato dal Discobolo di Mirone.
Quest’ultimo aspetto è sintomo del fatto che qualcosa, per essere considerato bello secondo la concezione greca, deve essere riproduzione fedele della natura, della realtà.
È qui che si innesta la critica di Platone all’arte, nello specifico alla poesia e alla scultura e pittura.
Secondo il filosofo ateniese infatti, l’arte è una copia, un’imitazione della realtà e come tale mera apparenza che nasconde invece di disvelare il mondo e i suoi oggetti.
La realisticità dell’oggetto riprodotto non è tutto; infatti, esso è tanto più bello quanto più è fedele e aderente al suo scopo, al suo fine.
Solo così può raggiungere quell’armonia perfetta ed essere bello e buono, secondo quella che comunemente definiamo Kalokagathìa.
Secondo l’ideale greco della Kalokagathìa, (da kalós che possiamo tradurre con bello e agathós ossia buono) il bello deve essere specchio della perfetta armonia di corpo ed anima; lo si vede bene ad esempio nelle liriche di Saffo.
Nei versi di Saffo la bellezza sotto la protezione di Afrodite è sempre legata ai sentimenti, all’amore, all’Eros; come scrive la poetessa di Lesbo, bello è ciò che innamora.
In un frammento di Saffo questa idea è chiaramente esplicitata:
Chi è solo bello, resta bello all’occhio.
Ma chi ha valore sarà bello sempre.
È bello dunque soltanto ciò che è espressione delle virtù umane, ciò che è specchio della bontà dell’animo.
Ragionando sempre sul paradigma della statuaria greca, notiamo come i volti delle statue siano caratterizzati da un’espressione imperturbabile, quasi impenetrabile, a simboleggiare la capacità dell’anima di dominare le passioni del corpo.
Ciò che è bello è dunque tutto ciò che rispecchia l’ordine interiore in una forma ordinata esteriore; il bello è armonia (intesa anche come ritmo musicale), è forma proporzionata, ma anche misura matematica (secondo la dottrina pitagorica).
Il bello sembra dunque coincidere in quest’ottica con ciò che in età moderna Friedrich Nietzsche definisce “spirito apollineo”.
Eppure sulle mura del tempio di Delfi, Apollo, “rappresentante” della forma equilibrata, non è l’unico dio ad essere raffigurato.
A fare da controcampo ad Apollo, sul frontone opposto del tempio è infatti Dioniso, dio del vino, dell’ebbrezza, dell’estasi mistica.
Questo dato è piuttosto significativo poichè dimostra come la concezione della bellezza come forma equilibrata e razionale sia soltanto una parte di ciò che era considerato bello dai greci.
Nietzsche nella sua visionaria opera giovanile La Nascita della tragedia, aveva espresso questa dicotomia nei termini di “apollineo” e “dionisiaco”, i due spiriti fondamentali della grecità.
Possiamo descrivere il dionisiaco come lo strato primigenio della vita, come un flusso estatico di sentimenti primordiali che ciclicamente spezza le maglie della forma apollinea.
L’apollineo è al contrario il sentimento equilibrato e contenuto della vita che si dà una forma razionale.
Questi due sentimenti vitali caratterizzano le due facce della bellezza nella Grecia antica e non possono esistere l’uno senza l’altro, ma si scontrano e riconciliano ciclicamente; il frutto della loro unione dà vita secondo Nietzsche, alla tragedia attica.
In particolare, nella sfera dell’arte, l’apollineo rappresenta la scultura, l’arte plastica, è principium individuationis, sogno di compostezza e bella parvenza, mentre il dionisiaco è il principio antitetico del caos, dell’ebbrezza, dell’informe, dunque dell’arte non figurativa per eccellenza ossia la musica.
Apollo è il protettore di “quella moderata limitazione, quella libertà dalle emozioni più violente, quella calma piena di saggezza del dio plastico. Il suo occhio deve essere solare, in conformità alla sua origine… spira da esso la solennità della bella parvenza”.
Il dionisiaco all’opposto, viene descritto da Nietzsche nella Nascita della tragedia attraverso un paragone con la filosofia di Schopenauer, come ciò che squarcia il velo di Maya, il mondo apollineo della rappresentazione e il suo principium individuationis per liberare il fluire danzante della vita informe.
Lo spirito dionisiaco irrompe a spezzare l’apparenza sensibile come un “estatico rapimento che, per la stessa violazione del principium individuationis, sale dall’intima profondità dell’uomo…della natura”.
Come scrive il filosofo tedesco “sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame tra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo.
Sotto l’influsso di Dioniso, “l’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria”.
Questo stato di comunione primitiva tra uomo e mondo poi nuovamente “attraverso l’influsso apollineo del sogno…si rivela in un’immagine di sogno simbolica”.
Perciò nessuno dei due dei greci può stare senza l’altro, si implicano reciprocamente, hanno bisogno l’uno dell’altro e assieme vivificano i due volti della bellezza della grecità.
Benedetta De Stasio
Leggi anche: Pillole di storia dell’arte, a caccia di bellezza con Susi Mastracchio