Di Janare e altri Incubi
Molti anni fa attesi l’alba leggendo la “Favola di Amore e Psiche” di Apuleio. Mi ero lasciata spaventare da certi racconti di persone a me vicine che riferivano di attacchi notturni durante il sonno. Volevo perciò restare sveglia finché la luce – e non altra forza o creatura soprannaturale – non si fosse insinuata dagli scuri della finestra.
Le Janare appartengono a un sottogenere di streghe che abitano le credenze popolari e, anzitutto, la tradizione contadina dell’Italia meridionale. In particolare, la Janara è di origine beneventana, pur essendosi poi diffusa in altre aree della Campania.
Le si attribuiscono poteri malefici e occulti che le consentono di insinuarsi di notte nelle stalle per soggiogare i cavalli, intrecciandone le criniere dopo averli cavalcati fino allo sfinimento. Invece nelle case, insidiano il sonno delle persone che vi abitano.
La maggior parte delle testimonianze riferisce di paralisi del sonno, o paralisi ipnagogica; fenomeno che impedisce alla vittima di muoversi e di parlare. Secondo la credenza, la Janara di proposito opprime il torace della vittima prescelta, giacendovi sopra.
La tradizione offre diversi rimedi per allontanare le Janare. A tal proposito, risulta particolarmente efficace tenere scope di miglio capovolte sugli usci delle porte e sacchetti contenenti grani di sale sui davanzali esterni delle finestre. In tal modo, si costringe la Janara a indugiare in un compito al quale non può sottrarsi, che tuttavia non sa portare a termine. Ovvero, contare i rametti della scopa o i grani di sale. Incapace di portare a termine la conta, ella scompare sorpresa dalle prime luci dell’alba.
Di queste pratiche magiche, con funzione protettiva, vorrei portare alla luce un dato comune, che meriterebbe un approfondimento: la rilevanza simbolica della soglia, di un luogo di passaggio. Ci si potrebbe chiedere se ciò rimanda al confine labile tra veglia e sonno, realtà e sogno, coscienza e inconscio.
In ogni caso, per questa via si giunge a una delle due etimologie più accreditate del termine Janara, la cui origine risalirebbe alla parola latina ianŭa, -ae, porta; ingresso, appunto. In effetti la Janara è capace di insinuarsi sotto una porta chiusa. La porta, nel suo senso figurato, ci rinvia inoltre alla credenza nota nella Grecia di Omero, credenza relativa alla dimensione onirica. Secondo tale credenza, esistono due porte distinte e separate dalle quali giungono, rispettivamente, i sogni veritieri e quelli pieni d’insidie.
Un’altra tesi vuole invece che Janara derivi da “Dianara”, sacerdotessa di Diana, la dea vergine dal triplice volto: Diana, dea della caccia e dei boschi; Selene, divinità legata all’astro lunare; infine, Ecate, divinità psicopompa, capace cioè di attraversare i confini del regno dei vivi e dell’oltretomba, nonché signora delle arti magiche oscure.
Figure mitiche simili alla Janara le scoviamo anche in altre tradizioni culturali. Nel corso della sua inchiesta etnografica sulla vita magica condotta dagli abitanti di Albano, in Lucania, negli anni Cinquanta del secolo scorso, l’antropologo Ernesto de Martino ha raccolto una serie di testimonianze su attacchi notturni da parte di maciare e maciari.
L’autore di “Sud e magia” spiega che esperienze di dispetti o vere e proprie vessazioni notturne sono da ricondurre ad una condizione di ‘’dominazione psichica’’ vissuta dalle vittime stesse.
Tutta la vita magica sarebbe da ricondurre a quell’esperienza esistenziale che l’antropologo napoletano chiama ‘’crisi della presenza’’, una condizione per cui il soggetto non si sperimenta come “centro” indiscusso di decisioni e scelte proprie e realisticamente orientate, in quanto “agito” da forze esterne dalle quali si sente soggiogato.
Tali forze, nei contesti etnografici sopra indicati, si materializzano in figure della tradizione, attraverso quell’operazione che de Martino chiama “destorificazione del negativo”, per la quale la propria vicenda umana viene avulsa dal contesto storico e sociale cui appartiene e ricondotta a una dimensione universale e mitica che consente da un lato di offrire forma e rimedio alle irruzioni caotiche dell’inconscio e dall’altro di “stare nella storia come se non ci si stesse”.
Più in generale, potremmo dire che Janare, maciare e simili sono trasfigurazioni simboliche di contenuti inconsci e vissuti profondi di dominazione; metafore belle e pronte, anche laddove siano mutate le condizioni storiche e sociali in cui hanno originariamente preso corpo.
È bene sottolineare che al risveglio, nella coscienza dei dormienti, l’aggressione viene spesso vissuta come reale. Mi sembra pertinente, e di nuovo in un’ottica comparativa, spostare ora l’attenzione su un capolavoro della pittura protoromantica, dalle atmosfere gotiche: Incubo (1781), appunto, di Johann Henrich Füssli.
Quest’opera rappresenta un interno borghese con una donna che dorme, la quale tuttavia sembra morta. Sul suo torace sta appollaiata una creatura grottesca, di quelle che popolano certe favole appartenenti alla mitologia germanica.
La paralisi del sonno vissuta dalla donna, della quale lo spettatore può vedere la visione onirica, è analoga a quella provocata dalla Janara. Va tuttavia portata all’attenzione una differenza importante: la traccia di un accoppiamento sessuale tra la figura di Incubo e la sua vittima. Notiamo inoltre che dal drappeggio rosso spunta la testa di un cavallo spettrale. Di nuovo il cavallo, diffusamente presente anche nei racconti orali sulla Janara. Ora, il titolo non tradotto dell’opera di Fussli è Nightmare, incubo appunto. È stata avanzata un’ipotesi sulla presenza della giumenta nella composizione del quadro, scomponendo la parola inglese nightmare in night, “notte” e mare, “cavallina”.
Incubi dalle molteplici sembianze possono acquisire connotazioni sessuali. Ce lo insegnano i satiri della mitologia greca e i fauni (come pure i silvani) di quella romana. Satiri e fauni erano creature dalle sembianze umane ma con attributi caprini, dotate di una fortissima carica sessuale. Essi erano soliti ghermire le fanciulle nel sonno. Nella mitologia romana Fauno è d’altronde noto proprio come Incubo. E il verbo latino incubo significa anzitutto “giacere sopra”.
Di Incubo c’è anche la variante al femminile: Succube. Anche se non in un’accezione esplicitamente erotica, giacciono sui corpi dei/delle dormenti anche Janare, maciare e maciari. In altre parole, la condizione esistenziale di “essere agiti da’’ potrebbe essere figurata anche come aggressione e dominazione sessuale. Così il cerchio tra creature tanto lontane si chiude.
di Cinzia Abis