Teleinfluenza
Informare, intrattenere, educare: questi i tre scopi della televisione fin dai suoi inizi. Ma la “mamma Rai” e le sue (relativamente) giovani colleghe sono ancora in grado di mantenere gli equilibri tra le loro funzioni? A quanto pare no e vale, dunque, la pena di cercare di capire cosa sia cambiato nel corso degli anni.
Avrete sicuramente tutti sentito parlare di tv “generalista”. Ma cosa significa esattamente? Cerchiamo di procedere con ordine e di destreggiarci nell’immensa rete di processi tecnici, legislativi e di palinsesto che si sono susseguiti come un immenso vortice nel corso dei sessantaquattro anni di vita della televisione italiana.
Innanzitutto, dobbiamo tener presente che la Rai, come servizio televisivo, è nata per assolvere tre funzioni precise: informare, intrattenere, educare. Si possono fare numerosi esempi su questi tre aspetti per quel che riguarda il palinsesto della televisione pubblica ai suoi inizi: c’era, ovviamente, il telegiornale (il primo programma trasmesso dalla Rai); a intrattenere ci pensavano, senza bisogno di presentazioni, Mike Bongiorno, Pippo Baudo, la Carrà e Mina; l’educazione portava sicuramente il nome del maestro Manzi.
Queste tre funzioni sono apparse ancora più chiare dal 1979, con la creazione della terza, e ultima, rete: Rai 3. Da quel momento, ad ognuno dei tre canali fu assegnato uno dei compiti: a Rai 1 andava il compito principale di informare, con diversi telegiornali e con programmi e rubriche di approfondimento; a Rai 2 toccava intrattenere, sia con i programmi, che con le prime fiction, che con i film che cominciavano ad essere trasmessi anche in tv; Rai 3, infine, era la rete dei programmi di cultura.
La televisione generalista è nata un po’ dopo. Essa è coincisa, fondamentalmente, con il fenomeno del “berlusconismo”. Quelli che hanno studiato la televisione italiana, siano essi storici o sociologi, concordano che l’avvento di Berlusconi come proprietario di Mediaset (nata dall’acquisizione di Telemilano, che divenne poi Canale 5, di Rete 4, acquistata da Emilio Rusconi, e di Italia 1, acquistata dalla Mondadori) abbia dirottato il prodotto televisivo verso obiettivi e standard non solo diversi rispetto a quelli del servizio pubblico, ma anche di livello culturalmente inferiore.
Ne consegue la creazione di palinsesti generici, appunto, come fossero un grosso calderone in cui metterci di tutto, a discapito, in primis, della qualità.
Perché si è arrivati a questo? Oltre ai fini più o meno socio-politici che si possono attribuire al berlusconismo, l’aspetto principale da tener presente è, sicuramente, quello economico.
La televisione degli inizi è una tv in cui la pubblicità non è ammessa. La legge vietava le inserzioni pubblicitarie, così come vietava ai privati di possedere più di un’emittente televisiva, che, tra l’altro, poteva trasmettere solo a livello locale.
Tutto cambia dalla metà degli anni ottanta, quando i governi entrano in gioco a favore degli interessi degli imprenditori. È così che viene data la possibilità di possedere più di una rete televisiva e che queste possano trasmettere sul territorio nazionale ed è così che, mano a mano, gli spazi garantiti per la pubblicità aumentano sempre di più. Tutto per ottenere degli utili.
Da questo momento i programmi televisivi cominciano ad essere concepiti esclusivamente in modo da tenere il pubblico incollato alla televisione. I palinsesti, dalla loro programmazione verticale (ossia basata sul giorno), cominciano ad essere concepiti anche in maniera orizzontale (basati sulla settimana). Viene proposto l’appuntamento giornaliero fisso. Lo spettatore deve essere messo in condizione di non poter saltare la visione del suo programma preferito.
Nella serie tv Boris, che si svolge sul set di una soap-opera all’italiana e che vuole raccontare in maniera satirica il mondo della televisione nel Bel Paese, mi ha colpito, in una puntata, un’affermazione di Ninni Bruschetta, che interpreta Duccio Patanè, il direttore della fotografia della fiction.
In sostanza, in una scena Duccio afferma che la sua fotografia nella serie “fa schifo” non perché lui non sia in grado di farla bene, ma perché “la vogliono così”, perché non deve essere più bella della fotografia degli spot pubblicitari, altrimenti la gente cambierebbe canale. Ecco, pur nel suo essere grottesca, questa serie e questa scena in particolare, hanno colto nel segno.
La questione non si limita, ovviamente, solo all’Italia. Le programmazioni in tutto il mondo vengono basate sulla vendita di spazi pubblicitari; il nostro paese, semplicemente, si è adeguato al mercato.
Cosa è cambiato, dunque, in sessantaquattro anni di televisione? Si può dire che sia cambiato tutto, ma anche che non sia cambiato nulla. Il prodotto televisivo ha semplicemente seguito le regole del mercato come ha sempre fatto.
Invece di raccontare dei soliti bei vecchi programmi tv degli anni ‘70 e ‘80 è più utile conoscere, invece, quelle che sono le dinamiche che hanno portato a questi cambiamenti, almeno in modo sommario, dato che il discorso sulla televisione è sconfinato e si intreccia con quello su tutto il mondo dell’intrattenimento; specialmente negli Stati Uniti, si parla, infatti, di “industrie culturali”.
Quando parliamo di televisione, dunque, è bene tenere sempre a mente che essa è semplicemente un prodotto da vendere come un altro: al supermercato si vendono alimentari e detersivi, in tv si vendono spazi pubblicitari e qualsiasi mezzo è lecito per vendere sempre di più. Vendere, vendere, vendere.
La regola è semplice: più spettatori guardano un programma, più si vende pubblicità. È il motivo fondamentale per cui la televisione è diventata generalista: tanti programmi, tutti sullo stesso canale, tutti diversi e tutti (o quasi) di scarsa qualità, per tenere quante più persone incollate allo schermo, in modo che lo share aumenti e con lui anche il costo dei singoli spazi pubblicitari.
di Federico Mangione
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