Se l’ansia ha tanti nomi, dentro c’è anche il tuo
A volte ci si ritrova lenti, senza motivazione, a misurare ogni centimetro con, da un lato, la paura che lo sforzo non sia sufficiente e, dall’altro, la certezza di sbagliare.
Ma c’hai solo vent’anni urlano i Maneskin dal palco durante un concerto, mentre si agitano. E Brunori scrive una Canzone contro la paura, a mezza strada tra una ballata e una poesia. E quanti altri ce ne sono.
Delle volte ci manca il fiato e il respiro si fa corto, non per un cammino affrettato, ma per il cammino in sé che, anche se percorso senza fretta, risulta spasmodico.
Il corpo si spezza e l’aria nei polmoni rimane sospesa, a guardare l’agognata meta che si allontana, di più a ogni passo, fino quasi a scomparire, senza preavviso, senza avvisare e senza possibilità di avvicinarcisi di nuovo.
Delle altre volte c’è bisogno di una corsa, di raccogliere le energie e buttarle fuori, tutte insieme, in un momento, fino a rimanere di nuovo senza, con i polmoni che si gonfiano affannosamente, le mani poggiate sulle ginocchia, il busto piegato in avanti e la milza che si contrae.
Nella frenesia, forse serve questo per scuotersi per davvero?
Una spinta, un colpo, una caduta, un botto che scoppia a millimetro dal nostro orecchio. L’ansia.
Nella testa tante parole. Non sono abbastanza brava, svelta, intelligente, acuta, pronta, calma, sveglia, serena. Non sono, punto. Mai sufficiente a me stessa.
Da quello che leggo, questa tendenza all’autosabotaggio, che ci accomuna e ci rende fratelli e nemici, ha un nome. Si definisce atelofobia e si tratta di “un disturbo d’ansia, che influenza le relazioni personali e che si traduce in un costante senso di inadeguatezza”, nella ricerca perenne di una perfezione che non arriverà.
L’atelofobia fa credere che tutto ciò che si fa, o si dice, debba essere soggetto a rettifica, a giudizio, e che sia, quindi, semplicemente e senza possibilità di dubbio, sbagliato.
Modificare il proprio ritmo non è una possibilità da valutare, figuriamoci riassestarne l’andatura o inserire nel mezzo piccoli obiettivi più facilmente raggiungibili, o almeno distinguibili dal resto, che continua a giacere inerte e piatto davanti a noi.
Potrebbe valere per gli altri magari, mai per noi stessi.
E si resta lì, rallentati, spesso addirittura fermi, quasi paralizzati, ma senza la capacità di riposare.
Ho chiesto ad alcune persone che conosco di parlarmi di un libro che per loro poteva rappresentare il senso di inadeguatezza e il dubbio insistente che si genera, spesso senza una ragione concreta, in ognuno di noi. Le risposte erano tutte più o meno simili: “Bah, di non essere abbastanza un po’ tutti”. Fa sorridere, ma è vero.
Una persona però ha preso coraggio. È soggettivo, ma potrebbe andare bene. Il libro è del 2021, Tutto quello che so sull’amore, scritto da Dolly Alderton e tradotto da Veronica Raimo.
Un vortice che coinvolge protagonisti e lettori, pare, tra stazioni di partenza, soggiorni all’estero, amicizie e relazioni, feste, fughe e viaggi, studi ed evasione. Londra e l’autodistruzione.
Ci sono i trent’anni, le comparazioni con gli amici, i figli, le convivenze, le case, le invidie, le ingiustizie, le frustrazioni. Ci sono le lancette che rintoccano come fosse sempre tardi: hanno fretta, si accavallano, si scontrano e poi, senza preavviso, si fermano, ognuna puntando altrove.
Io non lo so se è il miglior libro per parlare di insoddisfazione, timore e inadeguatezza. Neanche chi me l’ha consigliato lo sa.
Leggendo le recensioni, però, sono rimasta colpita da un commento. Credo l’avesse scritto una certa Federica, o Francesca, e diceva così: “Parla di quella generazione che è passata inosservata e di cui non parla mai nessuno”, anche se poi ne parliamo tutti.
È la storia di una persona, di una vita come un’altra, di un’esistenza comune, a tratti banale, di un insieme di esperienze in cui il dramma precedente lascia spazio a quello successivo, in un’ansia che non consente riposo, ma che dramma, a volte, non è.
E ci si agita, si cerca altrove, si cambia idea, si puntano i piedi a terra, si insiste contro muri di gomma, si cerca di dilatare le ore, si corre dietro gli eventi, si cade, per la fretta e per la mancanza di equilibrio.
Precari, come le preoccupazioni. Effimeri, come le paure. Pesanti, come l’insoddisfazione che ci portiamo dentro.
E arriva un punto in cui, tra libri, canzoni e tentativi vani di interpretazione, non si può far altro che stare fermi, mollare l’atelofobia e le altre parole composte e complicate, e sedersi.
Chissà, forse sarà allora che, da lontano, vedremo qualcuno che corre, un altro che si affretta e si affanna al posto nostro, ma che non siamo noi, almeno non ora.
Sollievo: Il sollevare, l’essere sollevato da un peso, da una sofferenza fisica o morale, da una preoccupazione.
Stefania Malerba
Fonte copertina da Fernando Cesarano – Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo
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