Non ti sento, puoi ripetere? La letteratura non prende!
La Torre di Babele rappresenta il punto in cui per gli uomini è diventato impossibile comprendersi, nell’inevitabile separazione determinata dall’invenzione della lingua.
È quello che ci succede tutti i giorni, e ogni volta che ci avviciniamo alla lettura di un testo. Ci affacciamo alle parole scritte con il nostro occhio di lettore, più o meno informato, e ne diamo interpretazione, pensando non sia così difficile.
Lo è. O anzi, difficile non è leggere e dare un significato.
Difficile è invece capire che quel significato, che alla nostra mente è venuto così spontaneo e immediato, non è detto che sia ciò a cui stava pensando l’autore mentre scriveva o ciò che avrebbe voluto che il pubblico percepisse dalla sua opera.
È da qui che nascono le riflessioni, gli studi critici e gli approfondimenti. Da qui, si guarda alla vita di chi ha scritto, alla sua infanzia, al rapporto con i genitori, con le sorelle, con uno zio lontano con cui aveva trascorso due mesi di vacanza nella villa in campagna al sud della Francia e così via.
Da qui si analizzano le scuole, gli interessi, le cotte e gli amori, i saluti accennati, gli incontri mancati, le amicizie tra letterati, i circoli e i salotti più in voga, e poi ancora l’attitudine, il comportamento, la ragione che poteva stare dietro ad ogni azione, la brutta copia scarabocchiata e buttata via, la lettera inviata in un momento di frustrazione, o di gioia estrema, o di assoluta normalità.
Il concetto di incomunicabilità, infatti, sembra andare di pari passo con quello di letteratura, intendendo così “l’incapacità o impossibilità di comunicare e di stabilire un rapporto vivo e profondo di conoscenza con sé stessi e con gli altri”.
In questi casi, l’incomunicabilità, o quanto meno la difficoltà nella comunicazione, si deve spesso alla lontananza nello spazio e nel tempo tra autore e pubblico.
L’unica cosa che rimane stabile tra mittente e destinatario è il messaggio, che non subisce cambiamenti o rettifiche e non ricerca adattamenti.
Ampliando leggermente l’orizzonte, già l’etimologia della parola discorso, dal latino dis-cursus che significa “correre di qua e di là”, “scorrere”, “trascorrere con la parola da una cosa all’altra”, si lega a un senso di confusione che sembra inevitabile nel momento in cui si ha a che fare con le parole.
Ecco perché comunicare in maniera chiara e univoca non sempre è possibile, perché il punto di arrivo non si troverà mai esattamente nelle stesse condizioni di quello di partenza e le uniche cose che si possono raggiungere sono compromessi, chiarimenti e approssimazioni.
“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me, mentre chi le ascolta, le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo che egli ha dentro? Crediamo di intenderci; ma non ci intendiamo mai” scriveva Luigi Pirandello nel 1921 in Sei personaggi in cerca d’autore.
E come ha ragione.
Il tema centrale del dramma era proprio l’incomunicabilità, il conflitto cioè tra il desiderio e quasi la smania che dimostrano i personaggi nel voler comunicare la propria storia e l’impossibilità di una piena comprensione, e dunque rappresentazione, da parte degli attori sul palcoscenico.
Presentandosi a teatro, tra l’incredulità della compagnia teatrale, i sei personaggi di fantasia rivendicherebbero (è d’obbligo anche in questo caso usare il condizionale) il proprio diritto alla parola, e dunque alla vita, che per loro coincide con la rappresentazione in scena della loro vicenda.
Ma basta poco per rendere visibile la difficoltà di una riproduzione che possa essere percepita, se non come reale, quanto meno verosimile, nel momento in cui la compagnia inizia a rappresentare la vita dei personaggi, scatenando il fastidio e la permalosità dei sei.
Qualche anno dopo, nel 1925, anche Franz Kafka aveva approfondito lo stesso concetto nella famosa conclusione di Il Processo, scrivendo: “La logica è incrollabile, ma non resiste all’uomo che vuole vivere”.
Per tutto il romanzo il protagonista tenta di spiegarsi, senza però riuscire nel suo intento, tanto che il lettore non può non percepire quanto sia tangibile e frustrante l’impossibilità di comunicare chiaramente.
L’incomunicabilità umana è uno dei temi portanti nella letteratura del novecento. Testimone ne è il romanzo d’esordio di Alberto Moravia, pubblicato nel 1929.
In Gli indifferenti, l’autore rende le azioni e i dialoghi dei protagonisti annoiati, incoerenti, non mossi da alcuna motivazione, ma anzi dettati solo dalla passività, senza scopo, né possibilità di cambiamento o azione.
Seppur in maniera diversa, nel 1942, il linguaggio fu anche il nucleo principale del romanzo L’Étranger del francese Albert Camus.
In questo caso, il protagonista, Arthur Meursault, non riuscendo a prendere parte al gioco di menzogna e apparenza che lo circonda, finisce per non parlare, rendendo così la parola una vera questione di vita o, in caso estremo, di morte.
Anche Shakespeare, molto tempo prima, nella tragedia d’amore che è diventata la più nota, facendo pronunciare queste parole a Romeo, scriveva: “She speaks,” ascoltando Giulietta da sotto al balcone, “and yet she says nothing”.
Parlava, Giulietta, eppure senza dire niente.
E se lo diceva Shakespeare. E lo dicevano Pirandello, Kafka, Camus, Moravia e chissà quanti altri avrei potuto nominare, chi siamo noi per tirarci indietro?
Stefania Malerba
Foto copertina da Facebook
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