Cinque pezzoni dei Pink Floyd che (forse) non conosci
Tutti conoscono i Pink Floyd. Anche tu.
A meno che non abbiate trascorso tutta la vita in una grotta sperduta tra le montagne di una qualche regione remota del pianeta terra, senza mai mettere fuori il naso e senza che mai nessuno abbia messo il naso dentro – e dunque è probabile che, nel caso, non starete nemmeno leggendo quest’articolo – ebbene, dicevo, a meno di condizioni estreme del genere, avrete certamente sentito parlare dei Pink Floyd.
Il problema è… quanto li conoscete?
Tra un ascolto distratto di una radio che passa Wish you were here, e l’ennesima cover malriuscita di Another brick in the Wall, potremmo infatti esserci persi qualcuna delle tante fasi meno chiacchierate (ma altrettanto magiche) della band: i primi anni, con Syd Barrett, e poi l’uscita di Dark Side of the Moon, finanche l’era post Roger Waters, quando fu David Gilmour a prendere in mano il timone.
Il risultato è uno e semplice: c’è molto di più dei Pink Floyd di quanto l’orecchio abbia già ascoltato. Questo è solo un brevissimo assaggio di quello che potrebbe esserci sfuggito.
#1 – Lucifer Sam (1967, The Piper and the Gates of Dawn)
Mi sono sempre chiesta come avrebbe potuto essere la traiettoria artistica dei Pink Floyd, nel caso in cui Syd Barrett fosse stato capace di non cadere in pezzi dopo un unico album.
Forse la deriva introspettiva di Waters sarebbe rimasta in secondo piano, in favore delle idiosincratiche, brillanti e un po’ sinistre assurdità pop di Barrett. Come, ad esempio, questa stranissima, affascinante ode ad un gatto siamese, uno dei punti più alti dell’album di debutto della band del 1967, The Piper and the Gates of Dawn.
#2 – Set the controls for the heart of the Sun (1968, A Saucerful of Secrets)
Invece, sappiamo bene come andò a finire: una combinazione di disagio psichico e abuso di droghe, rese Barrett un rischio per la band, che, considerato che lui era il chitarrista, il cantante e l’autore principale, sarebbe facilmente potuta scomparire dopo quel primo album.
Invece, i tre membri rimasti sostituirono Barrett con David Gilmour, e l’anno dopo uscì A Saucerful of Secrets. Ironicamente, comunque, in questa Set the controls for the heart of the Sun, sebbene suonino entrambi, sia Barrett che Gilmour sono largamente messi in ombra dalle sognanti tastiere di Rick Wright.
#3 – Crumbling Land (1970, Zabriskie Point Soundtrack)
Molto lontano dallo stile universalmente a loro riconosciuto, questo pezzo che ha fatto da colonna sonora al capolavoro degli anni ’70 di Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point, appunto, è invece una perla rara che, proprio perché non c’azzecca niente, è impossibile non stare a sentire ancora e ancora e ancora.
Sembra quasi di ascoltare un gruppo pop della West Coast americana, un po’ beat un po’ addirittura country-style, un territorio inesplorato per Waters&Company, ma non meno elettrizzante!
#4 – Fearless (1971, Meddle)
In molti conoscono quest’album dei primi anni ’70 per la strumentale, nuda One of these days, qualcun altro per la monumentale (per quanto sottovalutata) Echoes, 23 minuti di canzone e quattro autori.
Meddle, invece, nasconde una piccola gemma, Fearless, che passerebbe per una gentile ballata folk se non fosse per la chitarra di Gilmour e, soprattutto, per lo spietato testo di Waters, che ha ormai preso le redini della parte autorale ed urla alla sua platea: Fearlessly, the idiot face the crowd.
#5 – Pigs (Three Different Ones) (1977, Animals)
Durante uno degli ultimi tour di Roger Waters, un grosso pallone aerostatico a forma di maiale, ma con il volto di Donald Trump, attraversava il palcoscenico e circumnavigava l’intero spazio occupato da noi ascoltatori.
La politica attuale, forse, questo ha fatto di buono: permettere al pubblico dell’ex Pink Floyd di riscoprire quest’album molto poco chiacchierato e questa canzone dal ritmo quasi funky sempre un po’ troppo in ombra, ma potentissima nel testo e nelle intenzioni. E poi, volete mettere cantare in coro con Waters, nel ritornello: Ah ah, charade, you are!?
Bonus track: Vera (1979, The Wall)
Di quest’album dei Pink Floyd del 1979 si è detto di tutto e di più, di già. È talmente suonato, ascoltato e raccontato in ogni dove che pare assurdo andarsi a cercare una canzone sottovalutata della band proprio lì, nel capolavoro universalmente riconosciuto.
Eppure, eccola lì Vera, un po’ nascosta pur se in bella vista, come la donna a cui è dedicata. Lei è Vera Lynn, cantante inglese tra le più conosciute durante la Seconda Guerra Mondiale, autrice di We’ll meet again, ballata struggente che viene anche citata nel testo di Waters: Remember how she said that / We would meet again / Some sunny day?
Marzia Figliolia
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