Una valigia con dentro una strage
Immagina di essere in una stazione una mattina d’estate. Immagina il caldo, la folla, la fretta. Immagina siano le 10:25 del 2 agosto 1980: un ordigno che esplode, l’orologio che si ferma, la gente che scompare intorno a te. Insieme a loro, scompari anche tu.
Sono trascorsi 42 anni da quel giorno.
Sono trascorsi 42 anni in cui, quotidianamente, milioni di persone attraversano la stazione centrale di Bologna, guardano i tabelloni con gli orari dei treni, si confondono tra le mille destinazioni diverse, si divincolano tra gli altri viaggiatori sulle scale, sbagliano binari, aspettano invano, perdono treni e pazienza, si innamorano e fuggono via.
Sono trascorsi 42 anni in cui, quotidianamente, almeno una persona, tra quei milioni che attraversano la stazione centrale di Bologna, si ferma davanti a una crepa e trema. Trema, come ha tremato quel giorno la terra.
C’è una lapide lì, un marmo freddo a contenere e proteggere i nomi delle vittime della strage. Al centro, un vetro che rende visibile lo squarcio dall’esterno. Dietro, i binari, talvolta i treni. Davanti la staticità, dietro la frenesia. Davanti la morte, dietro la vita. Ma davanti, quanto pesa ancora la morte.
C’è anche un orologio, nella pietra, in cui il tempo ha smesso di scorrere. Adesso racchiude soltanto un momento, uno dei più dolorosi della storia contemporanea italiana.
C’è il rumore tutto intorno, dentro invece regna il silenzio.
È bella Bologna, “una donna emiliana di zigomo forte, Bologna capace d’amore, capace di morte” cantava Francesco Guccini nell’album Metropolis del 1981, innamorato anche lui.
Eppure quel 2 agosto di 42 anni fa una bomba esplose nella stazione centrale di Bologna, portando con sé 85 persone e ferendone altre 218.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione l’autobus numero 37, che si trasformò in un carro funebre, in cui vennero deposti e coperti con lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
“Per cosa?” mi chiedo, come se le stragi possano avere una motivazione e questa possa essere in qualche modo accettabile. Un’assurdità.
L’esplosivo si trovava all’interno di una valigia abbandonata, nella sala d’aspetto dell’ala ovest. Dopo l’esplosione, sono stati quantificati almeno 20 chili di tritolo.
20 chili di tritolo nella stazione gremita di una grande città. Una sola valigia e tante parole: la disperazione, la sofferenza, la paura, la distruzione, la morte.
La strage gettò nella costernazione tutto il nostro Bel Paese, aggiungendosi al lungo elenco di episodi, le cui dinamiche sono destinate a rimanere poco chiare.
La magistratura individuò gli esecutori materiali tra le fila dei movimenti neofascisti di quegli anni, ma i mandanti non sono mai stati accertati. Si parlò di uomini di Stato, della grande criminalità organizzata e dei servizi segreti internazionali. Nulla di confermato.
Di confermato, invece, ci fu lo scoppio violentissimo, il crollo delle strutture delle sale d’aspetto e di circa 30 metri di pensilina, l’esplosione che investì il treno Ancona-Chiasso in sosta al binario uno e le vittime.
Di confermato, ci fu la miscela di tritolo e T4 che spezzò i destini di chiunque era presente quel giorno alla stazione centrale di Bologna e, dopo pochi minuti, anche di chi non lo era.
Due settimane dopo, il 17 agosto l’Espresso dedicò un numero speciale alla strage.
Per la copertina fu scelto un quadro a cui il pittore Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi Capricci: “Il sonno della ragione genera mostri”. Vicino alla firma, l’artista aggiunse solo una data: 2 agosto 1980. Non serviva nient’altro.
Stefania Malerba
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