Maryam, la morte a vent’anni: sarà lapidata
Lo scorso 26 giugno la ventenne sudanese Maryam è stata condannata a morte per lapidazione poiché accusata di adulterio.
È questa una delle ragioni che hanno spinto 19 gruppi di difesa dei diritti umani a protestare per l’abolizione della pena di morte.
Dopo la caduta del regime islamista del dittatore Omar al-Bashir nel 2019, la giunta militare e l’opposizione civile del Sudan avevano firmato una dichiarazione costituzionale con l’obiettivo di indirizzare il paese verso la libertà elettorale, all’interno di un generale processo di democratizzazione. Tuttavia, la suddetta dichiarazione non abrogava la pena di morte quando applicata a crimini di Hudud, il che ha consentito di condannare la giovane Maryram.
Nel diritto islamico Hudud sono i reati (o peccati, non esiste distinzione) commessi contro Allah e, di conseguenza, sono considerati in assoluto i più gravi. Si tratta letteralmente di “limiti” che se valicati sono punibili con l’amputazione di mani e piedi, con la flagellazione e con la morte. Tra i crimini di Hudud ci sono l’apostasia, il furto, la bestemmia, il consumo di alcolici e l’adulterio.
In nome del Codice penale islamico il tribunale di Kosti, nello stato del Nilo Bianco, ha potuto stabilire che Maryam venga brutalmente lapidata a morte.
Ad oggi Maryam sta combattendo affinché la pena venga annullata, come è già accaduto in passato, con il supporto di gruppi di difesa e dell’African Center for Justice and Peace Studies (ACJPS), che ha descritto la sentenza come “una grave violazione del diritto internazionale”, per cui si chiede l’immediato rilascio della donna.
A destare preoccupazione è il fatto che nel mondo musulmano la lapidazione, per quanto raramente utilizzata, esiste ancora come forma di giustizia contro determinati tipi di criminali.
La crudeltà dell’atto si consuma lentamente, sasso dopo sasso, sino a quando il condannato, sepolto in una buca, non esala l’ultimo respiro tra la folla inferocita.
La pratica viene di tanto in tanto recuperata in Nigeria, in Arabia Saudita, in Qatar per citare qualche paese.
L’Iran, per esempio, è una di quelle nazioni che ricorre piuttosto frequentemente alla lapidazione, collezionando così il più alto numero di condannati lapidati a morte. “Le pietre utilizzate per infliggere la morte non dovranno essere troppo grandi per evitare che il condannato muoia dopo essere stato colpito una o due volte; non dovranno neppure essere così piccole da non poterle chiamare pietre”, recita il Codice penale iraniano.
In Afghanistan, invece, sono stati i Talebani a ripristinare la lapidazione e nel 2015 hanno anche diffuso un video in cui una donna veniva catturata e torturata, perché accusata (come sempre) di adulterio.
Nel 2012 diverse donne sono state condannate alla lapidazione anche in Pakistan, dove, fortunatamente, la punizione non è stata portata a termine.
Tante sono le associazioni che lottano per la rimozione di tale supplizio, ma troppe sono le realtà che vivono l’orrore della lapidazione.
Maria Paola Buonomo
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