Tuffarsi nel passato? Con il museo della civiltà contadina di Pastena è possibile
Nel bel mezzo della città di Pastena vi è il museo della civiltà contadina dell’ulivo. Ci si trova all’interno di un museo che racconta la storia di un territorio e di una popolazione, per questo definito demo-etnoantropologico.
Il palazzo venne costruito nel 1879 dalla famiglia Trani, molto ricca e benestante, ma non avendo avuto figli, il palazzo venne acquistato dall’amministrazione comunale e trasformato in un museo.
È caratterizzato da tante sale, ciascuna rappresentante una parte della vita contadina: la “Sala Frantoio”, la “Sala dei Mestieri”, la “Sala da Letto”, la “Sala Lavorazione del Grano”.
Iniziando dalla prima sala, possiamo già notare quanto fosse incidente la coltivazione dell’ulivo, trovandoci all’interno di un antico frantoio dove un tempo vi era un asinello che con un movimento a traino faceva girare il frantoio a macina di pietra utile per schiacciare le olive. Curioso è come l’asino venisse bendato per evitare che a causa dei continui giri su sé stesso potesse impazzire, dal momento che gli toccava girare sempre nella stessa direzione.
La pasta di olive, costituita sia dal nocciolo e sia dalla polpa, veniva caricata con le mani su una sorta di grande carriola. Trasportata verso il torchio, si vede in che modo la pasta di olive tramite la pressa venisse schiacciata fino a quando acqua e olio finivano nel tino. L’olio per effetto naturale galleggiava sull’acqua e loro con un piatto lo raccoglievano e lo conservavano. L’acqua, a sua volta, defluiva all’esterno e veniva attinta dall’antica cisterna romana. Al centro sala è possibile osservare un tronco d’ulivo secolare che è stato ripulito in seguito ad un incendio e donato al museo.
Nella stanza successiva si ritrovano una serie di finimenti in riferimento al cavallo, all’asino e al mulo, per la loro preparazione e per l’utilizzo di questi utensili come la sella, i paraocchi che venivano utilizzati quando l’animale era spaventato, la museruola che veniva usata nei campi durante il lavoro quando il povero animale seguiva i contadini nei campi per evitare che mangiasse cibi pericolosi per lui. Si possono notare tre tipologie di ferro: quella del cavallo, del mulo e dell’asino.
È bene soffermarsi anche sul punto di vista storico per poter contestualizzare. Durante la Seconda guerra mondiale, il paese fu bombardato e gran parte venne distrutto. Anche l’abbazia di Montecassino venne rasa al suolo.
Pastena era posizionata lungo la linea Gustav, da questo deduciamo che è stata una zona minata, tant’è vero che una targa ricorda le vicende delle marocchinate quando il rientro delle truppe portò questo disastro all’interno della popolazione.
Da qui il collegamento alla parola Ciociaria, che deriva dalle ciocie ossia un antico calzare della popolazione locale, somigliando molto ai sandali dell’antica Roma. Esistevano due tipologie: la ciocia marittima bucata sul davanti, quella di campagna caratterizzata da un beccuccio all’insù ed è chiusa, risultando come un sandalo più adatto al territorio dell’entroterra.
Pastena faceva parte della ciocia marittima, infatti, è l’unica ad avere la diocesi a Gaeta. È stata provincia di Caserta fino a quando Mussolini istituì la provincia di Frosinone, nel 1927. Vi passa anche l’antico confine preunitario, cioè regno di Napoli e stato della chiesa, ed è per questo che lungo questo tragitto passante da Terracina all’altro versante del mare Adriatico vi sono vari cippi in pietra che ricordano quest’antico confine fino all’unità d’Italia.
Del palazzo si può visionare anche la sua antica cucina che raccoglie tutti gli oggetti necessari.
Molto importante e fondamentale era la preparazione del pane la cui cottura avveniva nel forno a legna.
Nella parte più alta della cucina ci sono una serie di anfore: quella decorata in rosso che le donne riempivano d’acqua da bere ogni giorno recandosi al pozzo; quella con il manico per il vino; altre che, invece, venivano riempite di salumi e di formaggi coprendole con lo strutto (il grasso di maiale che un tempo si usava anche per cucinare) per conservare gli alimenti durante l’inverno data la mancata presenza dei congelatori.
Un utensile interessante era il trapano a mano che serviva per aggiustare i piatti quando si rompevano, un’aggiusta piatti di cui ce ne parla anche Pirandello ne La Giara. Si praticava un foro al coccio e con il filo di ferro si ricucivano l’estremità dei piatti così bene da poterci mangiare il brodo.
Poi, si scopre una delle prime macchinette per la pasta sfoglia.
Imparando a riconoscere i dettagli si ha modo di notare che i piatti sono decorati con i colori del territorio: il giallo per la chiesa e il rosso e il blu per il regno di Napoli e delle due Sicilie. Quindi, tutto veniva studiato affinché ci fosse un riferimento territoriale; infatti, anche il vaso ha dei richiami in giallo, quindi, sicuramente l’idea di produzione apparteneva allo stato della chiesa.
C’è un’altra sala, quella dedicata alla lavorazione del formaggio, specialmente del marzolino.
Il nome deriva da marzo che era il mese migliore per la preparazione di questo formaggio che si ottiene dal latte di capre o di pecora. Si mungeva in stalla e si raccoglieva all’interno di un recipiente e infine versato nella pentola sul fuoco. Dopodiché si aggiungeva il caglio, oggi un alimento chimico, che un tempo era derivato da un enzima presente nello stomaco del capretto e che serviva per far fermentare il latte così da diventare una cagliata. Una volta che il latte era cagliato, veniva frantumato solitamente con una tipica paletta di legno e lo si raccoglieva all’interno di queste formine, tra cui quella cilindrica che era propria del marzolino.
Un’altra stanza è quella da letto in cui troviamo la culletta attaccata al soffitto, anche se in ogni stanza c’era un gancio per cui il bimbo seguiva la mamma in tutti gli ambienti della casa.
Vi sono tre abiti da sposa ad inizio ‘900, la povertà faceva sì che l’abito si dovesse riutilizzare in occasione di altre cerimonie. L’abito bianco era destinato alle fanciulle più benestanti.
All’interno della camera da letto vi era anche un inginocchiatoio per le preghiere, in tal modo la sera, dopo il lavoro, le donne potevano recitare il rosario.
Ricorrente ai tempi era l’immagine sacra esposta nella stanza della madonna della Civita. La madonna arriva da Costantinopoli ed è colei che doveva unire i popoli; infatti, segnava il punto di incontro tra l’Oriente e l’Occidente.
L’altra immagine ricorrente raffigura solitamente i patroni del paese: sant’Elena o san Sinforo. Sant’Elena è la madre dell’imperatore Costantino, colei che nella tradizione cristiana ritrovò la croce di Cristo. In merito a San Sinforo si sa della sua provenienza dalle Catacombe di Callisto e sul suo trascorso si sa soltanto che subì la persecuzione durante il regime di Diocleziano. Potrebbe avere origini francesi.
Come penultima sala, vi è quella dedicata alla lavorazione del terreno. I contadini guidavano gli animali utilizzando delle funi e servendosi del freno a bue. Questi attrezzi sono rudimentali.
L’aratro era di diverse dimensioni in base all’aratura richiesta e lo stesso valeva per le forche che si ricavavano dai rami degli alberi e si modellavano col fuoco, acqua e mani, utili per rimuovere fieno e paglia.
Un altro attrezzo è la seminatrice che veniva trainata o da un bue o da un mulo, veniva utilizzata per la semina che solitamente si faceva a mano; quindi, era riservata a pochi addetti al lavoro.
Infine, c’è la sala dei mestieri in cui troviamo la tessitrice per il calzolaio, utensili per il falegname e il fabbro. Un tempo coltivavano il lino e la canapa, queste piante si raccoglievano nei campi E si mettevano in ammollo nelle acque dei fiumi. Dopo circa 20-25 giorni si tiravano fuori dai fiumi interamente putrefatte per essere macinate.
La macina per il lino è un cavalletto rudimentale, si batteva forte e si divideva la fibra dalla parte legnosa. La fibra era grezza che grazie all’aiuto del fuso si affusolava il filo. La manualità delle donne gli permettevano di sistemare questo filo sull’arcolaio fino ad arrivare al telaio.
Sono posizionati sulla parete anche tutti gli strumenti musicali. In alto i tre martelletti, ossia i triccheballacche chesi utilizzavano a Carnevale, la zampogna a Natale e Pasqua ed entrambi hanno origini campane. C’è anche l’organetto che si suonava per il dopo lavoro ma soprattutto dalle famiglie che si radunavano e lo suonavano come intrattenimento.
Puntando l’attenzione sulla parte inferiore della parete si vede una tavolozza di legno che si utilizzava in occasione della processione del cristo morto, il Venerdì Santo, nella chiesa cristiana che era in lutto per la morte di Cristo, si suonava questo strumento per richiamare i fedeli in chiesa.
Ancora oggi si usa fare la vendemmia, per cui in questa sala è possibile vedere gli strumenti adatti presenti nelle cantine come il torchio e il tino.
Quest’intero percorso rende possibile immaginarsi in un tempo ormai andato, aprendo una finestra sulla civiltà contadina che ha concesso a Pastena di beneficiare della conservazione di questi oggetti esposti di proprietà dei contadini che hanno contribuito alla sistemazione del museo con cura e affezione.
Alessandra Lima
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