Slut shaming: quando uno stigma può diventare violenza
Tutte quelle volte che abbiamo sentito dire “non puoi uscire così, non è da signorina” oppure “sembri una poco di buono con quella gonna corta”.
Ecco, se al momento non ci avete neanche fatto caso, adesso sapete che non solo si tratta di un’offesa, ma esiste anche un termine che designa questo vero e proprio insulto.
Ebbene sì, seppur evoluto, il genere umano continua ad etichettare tutto e ad avere aspettative sugli individui basate su tradizione, norme e regole da seguire.
Le donne sono sempre state ritenute dolci, sensibili e pudiche. Indossare abiti sconci o troppo scollati non è visto di buon occhio perché si potrebbe ricadere nella classica denominazione di “poco di buono”.
Ma chi ha istituito queste norme e, soprattutto, chi ci dice che non possano essere cambiate?
Proprio qui ci viene in soccorso lo Slut Shaming, termine che significa “umiliazione da sgualdrina”, adottato dal movimento femminista per designare l’atto di far sentire una donna colpevole per comportamenti ritenuti non tradizionali e che prendono le distanze dalle aspettative della società.
Le donne, quindi, vengono etichettate e stigmatizzate con parole non adatte solo perché hanno deciso di violare quelli che sono i canoni comportamentali imposti dall’esterno.
Lo Slut Shaming non viene solo utilizzato dagli uomini, ma anche dalle donne stesse.
Tale evento ha un grave impatto sulla società, soprattutto quando si tocca il delicato e grave fenomeno della violenza sessuale.
Particolare è il caso di Michael Sanguinetti, ufficiale della polizia di Toronto che, nel 2011, durante un incontro sulla sicurezza presso l’Università di York, ha dichiarato che le ragazze dovrebbero evitare di vestirsi in maniera succinta per non essere vittime di abusi sessuali.
Per queste gravi parole, fu indetta una manifestazione, SlutWalk, contro la violenza sulle donne a Toronto dove le ragazze indossarono abiti “provocanti”.
Le affermazioni dell’ufficiale provocarono una dura reazione dal mondo femminile ritenendo assurdo definire l’abbigliamento una provocazione quando di mezzo c’è uno stupro.
Colpevolizzare la vittima sembra l’unico escamotage di chi si macchia di un reato tanto grave, soprattutto se viene “incoraggiato” da un agente di polizia.
Insomma, la società vuole chiuderci in canoni e norme ben stabilite: Santa o poco di buono. In realtà una donna può decidere di essere ciò che vuole e vestirsi come meglio crede, vivere la sessualità in maniera libera e non sentirsi giudicata dagli altri.
La violenza sessuale è un reato e mai una ragazza deve sentirsi colpevole in una situazione del genere.
Per citare la giornalista Emily Bazelon: “Chiamare una ragazza puttana l’avverte che c’è una linea: lei può essere sessuale, ma non troppo sessuale”.
Oggi vi dico di decidere liberamente, senza preoccuparvi degli standard sociali, ma essendo solo voi stesse.
Martina Maiorano
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