La giornata di uno scrutatore di Calvino: a volte non capire ci sta
Conosciuto da pochi, La giornata di uno scrutatore, è assolutamente un libro da leggere. Perché parla un po’ di tutti noi: in continua lotta con la realtà, nel disperato tentativo di darle un senso.
Sinceramente non lo avevo neanche mai sentito nominare quando la docente di uno dei miei corsi di laurea ha citato, tra le letture previste per l’esame, La giornata di uno scrutatore di Calvino.
Un libro interessante, ma non così facilmente collocabile come gli altri scritti dell’autore e forse per questo lasciato da parte.
Pubblicato nel ‘63 da Einaudi nella collana I Coralli, quest’opera si distingue da tutte le precedenti pubblicazioni, così come dalle successive, per un’aurea di incompletezza. Questa sensazione d’amaro in bocca che, partendo dalle prime pagine, si acuisce sempre più.
La narrazione è ambientata durante le elezioni del ’53 presso il Cottolengo di Torino, ospedale di cura per individui disabili nonché sede di un seggio elettorale, dove Amerigo Ormea è eletto scrutinatore.
Del nostro protagonista sappiamo poco, se non il suo orientamento politico comunista e una conseguente tendenza alla razionalizzazione: Amerigo, seguendo i precetti logici dello storicismo marxista e gramsciano, tenta di interpretare la realtà seguendo un meccanismo di tesi-antitesi e sintesi.
Giungendo al Cottolengo tuttavia il suo sistema mostra i primi segni di cedimento: l’idea di società utopistica comunista, cui si era così disperatamente attaccato, crolla pezzo per pezzo di fronte alla complessità e al caos del reale.
Vede individui paralitici, affetti da disturbi mentali o gravemente malati avviarsi uno ad uno verso il seggio, fieri di aver ottenuto finalmente un riconoscimento nella storia. Nella società comunista però, non c’è spazio per la disuguaglianza, neanche quella naturale:
C’era dunque in questa finzione di libertà che era stata loro imposta […] un barlume, un presagio di libertà vera? O era solo l’illusione, per un momento e basta, d’esserci, di mostrarsi, d’avere un nome?
Era un‘Italia nascosta quella che sfilava per la sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi…
Più tempo Amerigo trascorre in quel luogo e più inizia a infondersi in lui il seme del dubbio: e se la sua non fosse l’unica società possibile? Se vi fosse spazio anche per il Cottolengo?
«Se il solo mondo al mondo fosse il Cottolengo, pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo sovrasta e schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare la sua storia…»
Ed è a questo punto che Amerigo matura in sé il concetto di relatività: il suo non è l’unico dei mondi e degli possibili e neanche il più influente se paragonato alla grandezza dell’universo.
Con occhi nuovi supera le inferriate del Cottolengo per osservare più lontano, scorgendo l’illogicità anche al di fuori di quel mondo, anche nella dimensione che lui aveva sempre vissuto… quella che lui considerava razionalizzabile e normale.
Scopre così che, non solo nel Cottolengo, ma anche nella sua realtà quotidiana, un progetto così squisitamente logico come quello comunista non sarebbe stato concretizzabile, neanche mutando la società. L’incompatibilità stava alla base del sistema e non aveva nulla a che vedere con la capitalizzazione, purtroppo.
Tutto ciò lo destabilizza enormemente, tornato a casa cerca conforto nella sua torre d’avorio, consultando gli scritti giovanili di Marx, ma in quel momento, per l’ennesima volta, un evento personale imprevisto comunicatogli via telefono manda in fumo tutte le sue chimere.
Di fronte al mucchietto di ceneri delle sue certezze, proprio quando non rimane più nulla, Amerigo torna al Cottolengo come ci torneremmo tutti: confuso, sconsolato, arrabbiato, impaurito e altre mille cose che neanche lui sa o riesce a capire.
Viene incaricato insieme ad altri scrutinatori e operatori di raccogliere i voti dei pazienti più gravi con lo seggio mobile, dove ha modo di vedere la vera sofferenza e la vera Italia nascosta.
«Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa […] che spuntava dall’imboccatura del letto come una pianta viene su da un vaso […] e altri suoni di voci gli facevano eco, eccitate forse all’apparire di persone nella corsia»
Poi un immagine lo scolpisce. Un’agnizione. Una speranza. Un po’ di luce in quel tunnel in cui si sente perso.
Un padre che passa delle mandorle al figlio ricoverato e lo guarda mangiare.
Ipotizza dal vestiario sia un campagnolo. Un contadino che, nonostante la fatica della settimana, si reca il weekend a Torino solo per veder masticare il figlio, non potendo pretendere nessun’altra interazione con lui.
La scena sembra sortire una risposta al quesito che soggiace nelle pagine del libro quasi dai primi capitoli, ovvero: Fino a che punto un essere può essere definito umano?
«Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.
E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore.
E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.»
Con sembra intendo dire che Calvino precisa immediatamente non essere una risposta definitiva, quanto piuttosto uno spunto di riflessione. Frutto di un flusso di coscienza e di una reazione a freddo all’intera situazione.
Questo rappresenta l’ultimo tentativo di sintesi-meditazione su ciò cui assiste al Cottolengo.
Dopo Amerigo non fa altro che decostituire in modo cinico tutte le sue sicurezze passate, terminando il libro con messaggi di solidarietà e immagini di società ideali.
Scrutando dalla finestra il cortile del Cottolengo pensa:
«Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta […] l’attimo in cui in ogni città c’è la Città.»
Questa costituisce l’ultima affermazione del libro, che lascia con mille riflessioni ancora sul tavolo.
Insomma questo libro non lascia nulla di certo. Non offre verità sicure, ragionamenti conclusi o spiegazioni per tutto ciò che mostra. Ed è proprio per questa ragione che andrebbe letto molto più di molti altri.
Calvino in soli 15 brevissimi capitoli è in grado di farti capire che, indipendentemente dal disegno in cui cerchi disperatamente di far entrare gli eventi della tua vita, non tutto ha un senso.
Non a tutto riuscirai a dare risposta ed è assolutamente ottuso pensare di poterlo fare senza che prima o poi un Cottolengo spunti dove meno te lo aspetti.
Nonostante possa sembrare una prospettiva scoraggiante in realtà non lo è in toto: il solo fatto che sia niente di meno che Calvino a mostrarsi privo di risposte, neanche di negative (ma che per lo meno rispondano), permette di percepire la confusione come qualcosa di comune, che ogni tanto è bene accettare.
In una società orientata alla logica, alla produttività e alla vita risolta, un libro come questo ci rieduca all’imperfezione. All’umanità.
Leggetelo insomma non perché vi lasci le giuste soluzioni, ma piuttosto la giusta attitudine ai dubbi.
Sofia Seghesio
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