Avevamo fatto l’Italia? E ora la sfasciamo!
A voler far fuori l’unità della penisola pare siano gli stessi italiani, alcuni di essi almeno, che, in risposta alla celebre frase attribuita a Massimo D’Azeglio: “Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani” vorrebbero rispondere: “Abbiamo fatto l’Italia, ora possiamo pure fare altro”.
Per “altro” si potrebbe intendere sport, hobby, attività ricreative e culturali, ma invece c’è chi ha deciso di occupare questa mancanza di “altro” con l’attività politica e alcune ottime idee.
Quello di cui parliamo oggi è il disegno di legge recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri, che riguarda l’autonomia differenziata, cioè un meccanismo che consentirebbe alle regioni a statuto ordinario di richiedere allo Stato competenza esclusiva su ben 23 materie di politiche pubbliche.
La proposta viene dal ministro della Lega – non più Nord, ma sempre Nord – Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali. Teoricamente, nella definizione di Affari regionali, andrebbero comprese tutte le regioni, nell’ottica di una maggiore e condivisa possibilità di uniformazione; praticamente, guardando alla proposta, si è aperto il dibattito.
Il progetto è stato condiviso dalla presidente Giorgia Meloni e dal suo Fratelli di Italia, incontrando invece l’opposizione della sinistra, che ha manifestato il suo dissenso in Parlamento e sui canali social. Nei talk show è fermentata la polemica e nelle piazze sono già cominciate raccolte di firme contro la possibile approvazione del disegno proposto.
Il tema che infuoca gli animi e gli studi televisivi non è la cessione dell’autonomia alle istituzioni regionali, ma le sue probabili – e non auspicabili – conseguenze.
Tra le 23 materie su cui le regioni potrebbero richiedere autonomia si comprendono: la tutela e sicurezza sul lavoro, l’istruzione, la ricerca scientifica e tecnologia, la cultura, l’energia, l’ambiente e la sanità. Questi sono solo alcuni tra gli ambiti più delicati su cui potrebbero ricadere gli effetti dell’approvazione del disegno di legge.
Uno dei punti più contestati, anche da economisti e sociologi, è legato ai LEP, cioè i livelli essenziali di prestazione che, secondo il dettato costituzionale, devono essere garantiti indipendentemente da ogni tipo di variabile, da Nord a Sud e da Est a Ovest, in maniera indiscriminata.
Con i Lep si mira alla tutela dei diritti civili e sociali di tutti i cittadini italiani, eppure, se la proposta dovesse confermarsi come definitiva, sarebbe inevitabile il rischio di un aumento del divario tra regioni con maggiori e più attrezzate o moderne infrastrutture, capaci di garantire un ventaglio più ampio e una più alta qualità di servizi, rispetto a regioni in cui infrastrutture e, di conseguenza, servizi sono carenti.
In parole spicce, il risultato sarebbe un impoverimento di ciò che è già più povero, con un passato trascorso, a volte suo malgrado, ad arrancare e barcamenarsi nella gestione delle risorse, e un arricchimento di ciò che è già più ricco, con un passato rigoglioso e di migliore amministrazione delle risorse stesse.
Nella proposta, tra l’altro, non si specifica la necessità per le regioni che richiedano autonomia in una determinata materia, di essere esenti da indagini o controlli sulla gestione della “materia” in questione. Parrebbe dire: “se i risultati ci sono, si può chiudere un occhio”.
Inutile puntualizzare che le conseguenze del divario sarebbero evidenti in tutti gli ambiti: dai servizi offerti nella sanità pubblica, che si trasformerebbe in una sanità con gestione a livello regionale, e dunque differente, seppure con un parametro minimo garantito, da regioni a regione, alle istituzioni scolastiche, che potrebbero organizzare il proprio programma e la somministrazione degli insegnamenti in forme differenti e non omogenee.
I pericoli ci sono su tutti i fronti, tanto che viene difficile stabilire quale sarebbe l’ambito che ne soffrirebbe maggiormente le conseguenze. Economico, politico, sociale? A voi la scelta.
In ogni caso, il cursus è ancora lungo e la polemica non terminerà con le prossime settimane.
La premier, rappresentante di Fratelli d’Italia – o mezza Italia? – e portatrice di valori come la nazione e la patria, cederà alle pretese della Repubblica di Savoia o manterrà la presa sul Regno delle due Sicilie, in nome di quella unità nazionale che è costata la vita a tanti “italiani”, che di questo attributo non hanno potuto fruire che nella memoria di quelli che sono venuti dopo?
Intanto, l’appuntamento è al centro di Roma e, per adesso, a Palazzo Chigi, si è aperta la crepa che potrebbe spaccare lo stivale, e non solo in due.
Stefania Malerba
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