Tár, attraverso lo specchio del potere
Potere e abuso, social media e cancel culture, etica ed estetica, emozioni e blocco creativo, sono alcuni dei leitmotiv attorno ai quali ruota Tár, l’ultimo film pluricandidato agli Oscar 2023 del regista Todd Field, che vede un’eccezionale Cate Blanchett come protagonista, affiancata dall’altrettanto carismatica Noémie Merlant, da Nina Hoss e Sophie Kauer.
Il film racconta la storia di Lydia Tár, celebre compositrice e direttrice d’orchestra, per la cui interpretazione, Cate Blanchett, è stata candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista.
Il film potremmo dire, rimanendo nella sfera musicale, ha una struttura contrappuntistica, si dipana, alternando sequenze che ci mostrano la vita pubblica e lavorativa di Lydia, il film si apre infatti con un’articolata e complessa intervista in cui viene ripercorsa la straordinaria carriera della donna, e scene che la seguono fin dentro casa nei momenti di intimità familiare.
Questo tipo di narrazione ci permette di seguire il crescendo emotivo di Lydia, donna algida, dura, indipendente e cinica, che si è costruita da sé ma che al contempo non esita a esercitare il suo potere per manipolare e liberarsi di eventuali “ostacoli”, crescendo che la porterà ad un vero e proprio crollo mentale.
La vita di Lydia è scandita e organizzata perfettamente, proprio come una partitura, dalla sua assistente Francesca (Noémie Merlant), tra meeting, prove, incontri di lavoro, rimane veramente ben poco spazio per la sua vita privata, eppure, attraverso un sapiente lavoro di regia, Todd Field, espande pian piano la portata e il valore delle sequenze casalinghe della donna; quasi impercettibilmente la compattezza e la grandiosità delle sequenze dove Lydia domina la scena come direttrice d’orchestra, iniziano a sgretolarsi; si tratta di un’erosione sotterranea, lenta, che però arriva violentemente allo spettatore.
Un velo di opacità copre le giornate di Lydia, lei è onnipresente eppure molto poco ci è dato sapere di lei, e ancor meno riusciamo ad afferrare della sua anima attraverso il suo inafferrabile e gelido sguardo; la cinepresa ce la mostra sempre indaffarata, mentre dirige, nel tragitto da casa alla scuola di Petra, la figlia adottiva della compagna Sharon (Nina Hoss), durante una delle sue corse in città oppure in una delle sue sempre più frequenti crisi compositive.
Primi piani inquietanti e lunghi piani sequenza seguono Lydia camminare inquieta ed agitata lungo i corridoi vuoti e bui della casa che diviene quasi labirintica grazie allo sguardo della cinepresa, un labirinto sempre più vorticoso in cui la donna viene travolta, in seguito alle accuse che piovono su di lei e che la isoleranno sempre più, a livello mediatico e personale.
Ma come viene detto nel film, nel mondo dei media, essere accusati equivale ad essere colpevoli, ed è così che la reputazione e la figura rispettabile e statuaria di Lydia vengono messe fortemente in discussione e anzi sottoposte ad un vero e proprio caso mediatico che vede il movimento #Metoo schierarsi apertamente contro di lei.
Il regista, riesce, con delicatezza ma in maniera decisa, ad affrontare, con uno sguardo attento puntato sui rapporti tra media, genere, arte e minoranze, questioni spinose come il legame tra il valore di un’opera d’arte e la vita e la condotta esistenziale di un artista.
Questa riflessione ruota attorno alla vita di Lydia Tár, che resta comunque volutamente nell’ombra, alla fine del film infatti, la sensazione è quella di non aver compreso fino in fondo questo personaggio, ammesso che si possa mai pensare di conoscere completamente una persona.
Nella superficie apparentemente ghiacciata della vita di Lydia che sembra quasi identificarsi, specchiarsi nel suo potere, nella sua vita lavorativa pubblica, si apre una crepa che si espande sempre più e per quanto ci sforziamo di non guardarla, forse alla fine siamo costretti tutti a fare i conti con ciò che vorremmo evitare.
Benedetta De Stasio
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