Come lo sbarco del decreto Piantedosi ne impedisce molti altri
Anno nuovo, vita nuova? Non per tutti.
In Parlamento il 2023 si è aperto così come si era chiuso l’anno precedente, tra polemiche, disquisizioni, rimpalli e tentativi di provvedimenti.
Il primo decreto legge dell’anno, però, alla ribalta in questi giorni, è ad opera del ministro Matteo Piantedosi, dal 22 ottobre 2022 ministro dell’interno nel governo Meloni.
Si tratta del decreto, per l’appunto, n. 1/2023, comunemente conosciuto come decreto sulle disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori.
La scelta di questa denominazione è stata fortemente criticata, così come il suo contenuto, diffondendosi la preoccupazione che il governo miri a ostacolare l’attività delle ONG, piuttosto che a tutelarne o coordinarne l’operato.
Vediamo perché.
Il decreto tratta il rapporto con le Organizzazioni Non Governative di soccorso ai naufraghi, imponendo nuove e più stringenti condizioni che le navi-soccorso saranno tenute a rispettare affinché la propria condotta sia considerata lecita.
Il testo, che ha ricevuto la fiducia della Camera dei Deputati, è stato additato come anticostituzionale, terrificante, impresentabile e soprattutto disumano, poiché né salvaguarderebbe l’incolumità dei migranti, né tutelerebbe maggiormente o in maniera migliore la “sicurezza del Paese”, concetto molto caro ai politici in carica.
L’episodio da cui il decreto prende avvio risale al mese di ottobre, quando il governo italiano si è opposto all’approdo della nave battente bandiera norvegese, Ocean Viking, dopo che questa aveva effettuato un’operazione di soccorso nel mar Mediterraneo.
Conosciuto anche come “Codice di condotta delle ONG”, il testo avrebbe lo scopo di limitare, per altri vietare, il transito e la sosta di navi nelle acque territoriali, appellandosi a ragioni di ordine pubblico.
L’accusa di violazione degli obblighi internazionali e di incostituzionalità deriva dall’opinione diffusa che un decreto del genere favorisca l’omissione di soccorso, ostacolando le manovre di salvataggio e minacciando ulteriormente la vita, già messa a dura prova, dei migranti.
Si è aperto il dibattito sul rispetto o meno del diritto internazionale e l’invito a “cambiare rotta” è stato interno ed esterno al Bel Paese.
Il provvedimento è abbastanza arzigogolato, ma cerchiamo di renderlo più chiaro.
Scendendo in dettaglio, sono sei le condizioni che consentirebbero di non autorizzare le operazioni di soccorso.
Tra queste, la mancanza delle autorizzazioni necessarie e la carenza dei requisiti di idoneità alla navigazione, la non tempestiva raccolta dei dati personali dei naufraghi, con simultanea comunicazione dei diritti a cui possono fare appello, l’assenza della richiesta di assegnazione di un porto di sbarco e il raggiungimento dello stesso in tempi utili alla buona riuscita dell’intervento, senza tentennamenti o giorni di permanenza ingiustificati in acque territoriali.
Ciò implicherebbe la possibilità di permanere in mare solo durante il tempo necessario per risolvere eventuali casi di emergenza: malati, donne incinte e bambini, i cosiddetti “soggetti a rischio”.
Ci si dimentica, forse, che in casi estremi come quelli dei flussi migratori e delle rotte clandestine, tutti i soggetti sono a rischio e ogni situazione è di emergenza.
Tornando al decreto, gli ultimi due punti riguardano l’obbligo di informare dettagliatamente le autorità di competenza sull’operazione e sul suo svolgimento e la garanzia di non aver concorso alla creazione di situazioni di pericolo, rischio o rallentamento nel raggiungimento del porto assegnato.
Gli aspetti su cui maggiormente si è incentrata la critica sono tre.
Primo tra tutti, la coesistenza e l’inevitabile confronto, sul “territorio nave”, tra il diritto italiano e quello dello stato di bandiera.
In secondo luogo, è cosa nota la mancanza di personale qualificato per la raccolta dati a bordo delle navi ONG, dunque l’impossibilità di condurre colloqui adeguati, soprattutto in breve tempo, senza il ricorso a interpreti e a consulenti.
Il terzo aspetto riguarda, invece, l’assegnazione del porto di scalo, spesso a molte miglia di distanza dal luogo di intervento, che impedirebbe la possibilità di una seconda manovra di soccorso o di deviazioni non autorizzate.
Soprattutto quest’ultimo punto finirebbe per obbligare il comandante di una nave, che ha già prestato un primo soccorso, a non poter offrire ulteriore aiuto davanti a nuove eventuali situazioni di emergenza.
“Non ostacoleremo il soccorso dei naufraghi, ma non consentiremo alle navi di rimanere per giorni in mare” ha detto la presidente Meloni.
Non alle navi, quindi, ma ai corpi sarà invece consentito di rimanere per giorni in mare? Sarà necessaria una autorizzazione anche per quello o si sceglierà di essere umani?
La risposta arriva, involontariamente, dal ministro Piantedosi stesso che, negli scorsi giorni, ha dichiarato: “Noi rispettiamo le persone, le emergenze umanitarie e le esigenze di queste persone”.
Benissimo. E oltre a questo, si è dimenticato di aggiungere che “noi” rispettiamo anche il diritto internazionale e l’obbligo di soccorso a cui i paesi che hanno aderito alla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo sono tenuti.
Non c’è altra scelta, questo è l’unico parametro di giudizio consentito.
E meno male.
Stefania Malerba
Leggi anche: Avevamo fatto l’Italia? E ora la sfasciamo!