La leggenda della testa di Moro
Spesso da bambina mi capitava di osservare le cartine dell’Italia, quelle nell’atlante o a fine agenda, la sua conformazione fisica e per ricordare regioni, province, città metropolitane dividevo lo stato tricolore come lo si fa con un corpo durante una dissezione.
Ogni regione per me era un organo, un apparato, un sistema. Ed ogni organo aveva le sue particolarità, le caratteristiche che lo rendevano unico.
Fin da piccola ho amato viaggiare e mi è sempre piaciuta l’idea di portar poi a casa con me un oggetto tipico, un libro, una fotografia, un quadro che riprendesse e riproducesse quella straordinarietà.
La mia Campania ha il Vesuvio, la Ceramica vietrese, il liquore Strega di Benevento, i boschi di Avellino, la Reggia di Caserta, Pompei, Ercolano, Padula, Velia, Paestum, Roscigno: è un tripudio di colori, come tutte le regioni figlie della Magna Graecia. Una delle più belle e ricche di storie, è indubbiamente Trinacria, la dolceamara e feconda Sicilia, «il granaio della repubblica, la nutrice al cui seno il popolo romano si è nutrito» così come amava definirla Catone il censore.
Vari sono i simboli di questa regione: le spighe di grano – simbolo della fecondità del territorio – la Triscele – le tre gambe, rappresentazione dei tre promontori, punti estremi dell’isola: capo Peloro, o punta del Faro a Messina, capo Passero a Siracusa, capo Lilibeo, o capo Boeo, a Marsala – e la testa di Moro o testa di Turco.
Le “graste” per usare il dialetto siciliano, i vasi in ceramica a forma di testa di moro sono così diffusi in Sicilia da essere divenuti uno dei simboli rappresentativi dell’isola.
Molti ne ammirano la loro bellezza, molti adornano i proprio terrazzi con i loro colori vivaci, ma pochi sanno la leggenda che si cela dietro questi “volti decapitati”.
La leggenda narra che intorno all’anno 1100, durante il periodo della dominazione dei Mori in Sicilia (iniziata a partire dallo sbarco a Capo Granitola presso Campobello di Mazara nell’827), nel quartiere Kalsa, all’epoca chiamato “Al Hàlisah” (l’eletta), di Palermo, viveva “una bellissima fanciulla dalla pelle rosea paragonabile ai fiori di pesco al culmine della fioritura e un bel paio di occhi che sembravano rispecchiare il bellissimo golfo di Palermo”.
La ragazza era quasi sempre in casa, e amava dedicare molte ore della giornata alla cura delle piante sul suo balcone. Un giorno si trovò a passare da quelle parti un giovane Moro, che non appena la vide, se ne invaghì. Le dichiarò immediatamente i suoi sentimenti e tra loro nacque una passionale storia d’amore. La felicità della fanciulla fu bruscamente interrotta quando scoprì che il suo amato l’avrebbe presto lasciata per ritornare in Oriente, dove l’attendeva una moglie con due figli. Amareggiata e delusa – con il desiderio di tenere il proprio amato per sempre con sé – la giovane attese la notte, “l’ultima notte”, e non appena il Moro si addormentò lo uccise e gli tagliò la testa.
Della testa del Moro ne fece un vaso dove vi piantò del basilico e lo mise in bella mostra fuori sul balcone. Intanto il basilico crebbe rigoglioso e destò l’invidia – tale era la bellezza – di tutti gli abitanti del quartiere che cominciarono a lavorare la creta per costruirne vasi a forma di Testa di Moro.
Esiste anche un’altra versione della leggenda: l’inizio è uguale; la storia differenzia su due punti cruciali: la ragazza era di origini nobili e alla fine – spoiler! – morirono entrambi.
“Scinnivi a la lucanna a pigghiari un cuteddu affilatu e na manta, poi m’avvicinavi a iddu e lu vasavi pì l’urtima vota. Durmìa ‘nsonnu prufunnu pì lu troppu vinu ca s’avìa vivutu. Tiravi ciatu e ci tagghiavi i carnarozza. Muriu ‘nto sonnu senza ca si n’accorgiu, lu sangu chiappau li me manu e iu mi sintivi rinata. Poi ci tagghiavi a testa, e la scrafuniavi di ‘ncapu pì chiantarici lu basaricò ca iddu avìa assai amatu. V’addumannati chi ni fici di lu corpu? Lu carricai attaccatu ‘nta lu mulu ri notti cu l’aiutu ri Pippineddu, e lu vruricavi nto tirrenu assai luntanu. Ma ora nun vi vogghiu chiu annuiari cu sta vicenna, piuttostu avvici nativi a mìa, chiuitivi l’occhi e ciarati stu basaricò, lu sentiti? Fa ciavuru d’anuri, fa ciavuru di l’amuri amaru di la testa di Moru, ca pagau cu lu sangu lu trarimentu, cu la vita lu me disunuri, lassannumi vacanti d’amuri e di basaricò china di prufumu”.
“Le teste di Moro” – Monologo di Francesco Billeci (Versione in dialetto siciliano)
Antonietta Della Femina
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