Perché guardare The Bastard Son & The Devil Himself
Netflix me l’ha fatta un’altra volta! Da qualche settimana, dopo l’ennesimo annuncio di cambi di tariffe e account condivisi, meditavo di sospendere il mio abbonamento, visto che il rapporto qualità/prezzo non è più così vantaggioso.
Eppure ogni volta che dubito, Netflix tira fuori una perla che mi costringe a ripensarci. Forse d’ora in poi sarà diverso, mi dico, forse hanno capito che devono badare di più alla qualità e meno alla quantità.
Pia illusione? Probabile, ma ancora non me ne vado nel caso annuncino una season 2. Lo show in questione è The Bastard Son & The Devil Himself, un urban-fantasy creato da Joe Barton, basato sul romanzo young adult Half Bad di Sally Green, che al tempo della sua pubblicazione entrò persino nel Guinness dei Primati come esordio letterario più tradotto al mondo prima della sua uscita.
Pur non avendo letto la saga – rimedierò! – capisco la fascinazione e il successo: la storia è intrigante, oscura e magica, nonché estremamente queer.
Io ve lo dico, questa serie è tutto ciò che Shadowhunters avrebbe voluto essere.
Curiosi di saperne di più?
Il sedicenne Nathan è il figlio illegittimo dell’Incanto Nero più temuto dalla comunità dei Bianchi; viene perciò cresciuto sotto stretta sorveglianza, nel timore che possa diventare malvagio e potente come suo padre. Sempre al limite tra bene e male, Nathan intraprende un viaggio – fisico ed emotivo – alla scoperta di se stesso e delle sue potenzialità, accompagnato dalla Bianca Annalise e dal Nero Gabriel, due facce della stessa medaglia, quella dell’amicizia e dell’amore.
Quella che può sembrare una classica storiella per ragazzi – con streghe buone e cattive e triangoli amorosi inutilmente complicati – è in realtà un’affascinante panoramica sulla natura umana, sulle zone grigie che ognuno possiede nella propria interiorità, dove non c’è solo bontà o malvagità, ma un’infinita gradazione di colori ed emozioni. Inoltre, non manca una rappresentazione assai naturale della fluidità sessuale e di genere, naturale in quanto non viene raccontata mai in maniera posticcia e forzata, ma con spontaneità, libera dalle etichette imposte dalla società e le sue convenzioni.
Una serie valida, dunque, per le questioni morali e sociali che fa affiorare, oltre che per la sua fotografia estremamente suggestiva – qualche effetto speciale un po’ kitch, però ci può stare con un budget limitato – e per le musiche grintose al punto giusto.
Il suo punto forte però restano i personaggi, quasi tutti odiosi e ipocriti, ma del tipo che ami odiare. Non mi era mai capitato di urlare contro lo schermo così tante volte e di augurare le peggiori morti alla maggior parte del cast. Non so voi, ma per me questo è indice di un coinvolgimento giusto e profondo.
Ovviamente l’odio/amore non si è esteso ai tre protagonisti, che ho preso in simpatia fin dall’inizio e per questo non so bene dove schierarmi nel suddetto triangolo amoroso. C’è speranza in una relazione poliamorosa, in cui Nathan, Gabriel e Annalise si amano incondizionatamente senza dover per forza scegliere? Chi può dirlo, io però ci spero molto. Sarebbe un’altra rappresentazione di cui si sente la mancanza nei media e che aprirebbe le porte a nuove relazioni fictional e nuovi modi di fare ship, se mi passate l’espressione.
Claudia Moschetti
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