Italia che viene, Italia che va
Sono emigrata e chi lo sa se ho fatto bene o male.
Sono emigrata perché non avevo motivi per non farlo. Mi ci sono ritrovata qui, in un altro paese, in un’altra città, circondata da tante persone, eppure sola.
Sono emigrata perché mi è stata offerta una possibilità e ho deciso di tentare, per poi capire che probabilmente una possibilità come questa l’avrei potuta trovare anche a casa mia, ma così non era stato.
Sono emigrata e mi ci sono affezionata, a un’altra cultura, a un altro modo di vivere le giornate, alla gente che ho incontrato e a coloro a cui a fatica associo oggi un volto e un nome.
Mi ci sono attaccata, ai momenti, ai luoghi, alle speranze, per non lasciarmi abbattere, nell’equilibrio, ricercato e precario, di chi lascia qualcosa a cui continua a sentirsi visceralmente vincolato. Non capita a chiunque, è una fortuna. È anche una condanna.
Ma noi italiani siamo un popolo di migranti.
Ogni tanto qualcuno se ne dimentica e parla come se fossimo tutti, i nati qui, in una penisola a forma di stivale, ognuno nella sua zona, con radici fisse e senza mai doversi spostare di un passo, alla ricerca di migliori condizioni economiche o sociali, di una famiglia, un lavoro, o parte di sè.
E invece siamo proprio questo: un popolo che non riesce a stare fermo, per desiderio e, tante più volte, per necessità.
Lo dimostra la storia. Basta fare un piccolo salto all’indietro, o chiedere ai nonni.
Tra il 1876 e il 1900, soprattutto dalle regioni del Nord Italia, dopo l’Unità così agognata e combattuta, si contano 5,3 milioni di espatriati, cioè il 15% della popolazione totale. Le destinazioni erano principalmente Francia e Germania. Pochi si recavano in America Latina e ancor meno in Nord America. Il boom arriverà più tardi.
La grande ondata di emigranti italiani proseguì nei quindici anni successivi. Si abbassò la zona di emigrazione – centro-sud – e ne aumentarono le proporzioni. Circa il 25% della popolazione decise di lasciare la penisola e trasferirsi altrove. Molti di questi erano meridionali, costretti dalla crisi del settore agricolo a muoversi, prima verso la pianura padana e la sua nebbia, nel tentativo di inserirsi come operai nelle industrie, e in seguito verso gli altri paesi europei.
Il triangolo industriale, nonostante fosse in espansione costante, non poteva offrire, però, possibilità di lavoro adeguate al numero di disoccupati che si presentava, inondando le città come una marea.
I primi a partire erano uomini, a cui spesso facevano seguito mogli e bambini, quando questi non rimanevano in patria a costituire la seconda e lontana famiglia, che un tempo era stata la prima e anche l’unica.
I genitori, spesso anziani, che difficilmente avrebbero sopportato un lungo viaggio e un trasferimento, rimanevano nel luogo natale, a ricevere regali, vivande e vestiti provenienti dal Nord, se non addirittura dall’America.
Nasceva così la speranza di poter conquistare una vita migliore in un nuovo mondo, nonostante il passo pesante, lo sguardo cupo e le valigie sgangherate.
Anche se i pregiudizi ci vedono tutti assassini, ladri e mafiosi, ristoratori e cantanti d’opera lirica, è proprio vero che l’Italia è una repubblica fondata sul sapersi arrabbattare al meglio, più che sul lavoro, che sia dentro e fuori i confini nazionali.
Dopo la fase di stallo, imposta dalle due guerre, i movimenti migratori tornarono, infatti, a essere consistenti, tanto che ancora oggi, nelle regioni più interessate dal fenomeno – Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Molise – si parla di oltre 3 emigrati ogni mille abitanti.
Tra questi, non ci sono solo i cervelli in fuga, giovani con curriculum splendente e plurititolati, ma anche migranti di ritorno, disoccupati over 40 con necessità di impiego e pensionati, in cerca di tempo libero e di un sistema fiscale meno pressante.
Tra questi, ce ne sono tanti altri, ognuno a giostrarsi tra domande, molte, risposte, meno, e pensieri, costanti.
Tra questi, ci sono anche io, a giostarmi tra domande, molte, risposte, meno, e pensieri, costanti.
Continuerò così, però so di non essere sola. Non lo sono mai stata.
Stefania Malerba
Illustrazione di Alice Gallosi
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