Cultura dello stupro: non più proteggere, ma educare
“Aveva la gonna troppo corta”, “Camminava sola di sera, se l’è cercata”, “Se accetti un rapporto sessuale non puoi tirarti più indietro”.
Quante volte abbiamo sentito queste frasi per strada o sui giornali, magari dopo una delle tante violenze sessuale avvenute ai danni di una donna.
La tecnica con cui si giustifica lo stupratore e si accusa invece la vittima fa parte della cosiddetta cultura dello stupro.
Ma di cosa si tratta?
La rape culture, dall’inglese, è un termine che descrive il modo di pensare e vivere, in generale gli atteggiamenti e comportamenti di determinate persone che minimizzano le violenze sessuali sulle donne.
L’universo femminile viene colpevolizzato di aver quasi voluto lo stupro. Si utilizza maggiormente lo Slut shaming, l’umiliazione della donna che, con determinate condotte, incita l’uomo alla violenza sessuale.
Col tempo gli stupri avvenivano sempre con più frequenza e, negli anni ‘70, negli Stati Uniti, inizia a svilupparsi tale termine.
Proprio Margaret Lazarus, regista, di Rape Culture tratta del tema in ambito cinematografico.
Negli ultimi tempi si sente sempre più parlare di stupri, ma questo problema è sempre esistito.
Erodoto e Ovidio si sono avvicinati a questo tema definendo normale la violenza fisica e, addirittura, segretamente voluta dalla donna.
Nel Medioevo, in particolare con il Dolce stilnovo, la dama poteva accettare o meno i corteggiamenti dell’uomo. Nel genere letterario “pastorella”, però, il cavaliere poteva ricorrere alla violenza sessuale nel caso ricevesse un “no”.
Insomma, non era permesso alla donna rifiutare un rapporto.
Una cultura, quindi, nasce e cresce radicata nella società quando c’è una determinata convinzione. In ambito della violenza sessuale, si sono dati alcuni motivi legati alla proliferazione di tali pensieri sbagliati.
Lo stupratore potrebbe essere mosso da rabbia nei confronti della vittima e la violenza rappresenta un modo per umiliarla. Ancora, avere potere sulla donna che, evidentemente, l’uomo non riesce ad esprimere in alcun modo se non con l’aggressione fisica al fine di controllarla.
Anche il sadismo rientra nelle possibili motivazioni dello stupratore che decide di attuare sofferenza nella vittima per provare piacere.
Ci sono poi aspetti biologici da considerare.
Nell’antichità era uso comune che gli uomini vincitori di battaglie e guerre aggredivano e possedevano le donne del popolo vinto. Secondo questa teoria, il comune denominatore sarebbe il testosterone e gli impulsi sessuali aggressivi si potrebbero tramandare e far parte del patrimonio genetico.
Però sappiamo che l’uomo è dotato di ragione rispetto agli animali e questo gli consente di controllare gli stimoli, anche violenti.
Allora perché continua ad accadere?
Ecco, il problema risiede proprio nella mentalità e in quelle pratiche che normalizzano atteggiamenti negativi nei confronti della donna.
Il modo di pensare, che ci viene tramandato dalla famiglia in primis, poi dalla società tramite mass media e socializzazioni, rendono alcuni atteggiamenti dannosi e pericolosi. Minimizzare e scherzare su questo tema può diventare rischioso e di ostacolo per l’emancipazione femminile e la parità di genere.
È necessario educare al rispetto controllando e correggendo quei comportamenti, anche minimi, che avvengono ogni giorno.
Come recitava un cartello esposto durante una manifestazione contro gli abusi sulle donne, non più “proteggere le vostre figlie”, ma “educare i vostri figli”.
Martina Maiorano
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