“This is from … – Lèon, the professional”
di Adele De Prisco
Era il 1994 quando il registra francese Luc Besson portò nelle sale cinematografiche uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Un film cult degli anni ’90 destinato a diventare: “Lèon, the professional”.
L’elegante pellicola francese ebbe subito molto successo e ancora oggi, dopo anni dalla sua primauscita, è ricordato come uno dei migliori film di sempre. Ma a parte questo, il punto in questione è: con quali occhi va guardato questo capolavoro?
La cosa certa è che Lèon è uno di quei film che non si può e non si deve catalogare. È uno di quei film che va guardato senza aspettative o pregiudizi. Bisogna guardarlo un po’ come Lèon guarda Mathilda per la prima volta: con gli occhi puliti. In questo modo ci si può far trasportare da una pellicola profonda, non scontata e che ti insegna a leggere tra le righe.
Ma procediamo con ordine, e attenzione agli SPOILER!
Siamo nella little Italy, quartiere di New York. In una vecchia casa nella 96esima strada di Manhattan abita Lèon, un “terribile” sicario di origine italoamericana con un passato doloroso, di cui si sa poco o niente, e un futuro fatto di nulla. Sembra abbastanza spaventoso, no?
Eppure Lèon potrebbe essere definito un antieroe, come quelli dell’età ellenistica. Di base, infatti, Lèon è un sicario che uccide solo per necessità e mai per voglia o per piacere; è un uomo semplice, tutto silenzio e latte, che non possiede nulla se non una piantina, unico essere che ama perché come lui senza radici, un cappello per proteggersi da eventuali raffreddori, una valigetta della morte con dentro armi da lavoro e un paio di occhiali da sole scuri, che non toglie neppure per dormire.
Scappato da un passato doloroso a solo 19 anni, Lèon (interpretato da un delicato Jean Reno), raggiunge suo padre a New York, sicario anch’egli, e inizia a lavorare anche lui per Tony (Danny Aiello), proprietario di una locanda che gli fornirà lavoro, soldi e che diventerà la sua unica famiglia.
Nonostante sia un assassino Lèon nasconde una purezza innegabile, celata dietro un paio di lenti scure e intrappolata in una stancante routine che il sicario accetta senza replicare, senza ribellarsi nonostante non la desideri.
Ma un giorno il destino bussa alla sua porta nascosto dietro un paio di occhi furbi e malinconici, pronti a salvarlo da una routine più assassina di lui. Sono gli occhi della dolce Mathilda (interpretata da una promettente Natalie Portman), una dodicenne in fuga da tutti e da se stessa, che desidera vendetta nei confronti dei poliziotti della
DEA, i quali le hanno sterminato l’intera famiglia.
Mathilda è una donna intrappolata nel corpo di una bambina con un accentuato lato oscuro che oscilla tra attimi di apatia e tenerezza, scampata alla morte perché fuori a fare la spesa.
Quando torna a casa e vede il massacro, la bambina bussa alla porta di Lèon, passato alla sua vista, fino a quel
momento, come un bambino alto, che cammina veloce, con gli occhi bassi e che non parla mai.
Da quel momento in poi le vite dei due si intrecceranno.
Dopo qualche attimo d’incertezza, Lèon apre la sua casa e molto di più a Mathilda. Pian piano i due si completeranno a vicenda: mentre Mathilda prenderà le sembianze di Lèon, che le insegnerà a “fare le pulizie”, il sicario imparerà a leggere e a mettere radici, arrivando a dormire finalmente in un letto.
I due si legano quindi in un amore puro, pulito, sacro e platonico. Nulla di spinto, nulla di volgare ma decisamente l’opposto.
Sono due solitudini che si uniscono diventando una cosa, legandosi fino alla morte. Sono due solitudini che a contatto cambiano e si scambiano: Lèon abituato alla solitudine, a non avere contatti umani a non essere legato ai soldi perché non schiavo di vizi mentali, e la bambina, sola anche lei (solitudine accentuata dalla particolare situazione sentimentale che Besson mette in evidenza con piccoli dettagli) che alla fine del film decide di tornare nel collegio abbandonato mesi prima e di vivere per sempre in compagnia della sua piantina, ultimo ricordo del suo amato Lèon.
Ma quest’amore non può non rapportarsi con il contorno e con la voglia di vendetta della piccola Mathilda che proverà da sola, grazie agli insegnamenti di Lèon, a distruggere i carabinieri corrotti della DEA, un altro enorme paradosso presente nel film: abbiamo Mathilda, una bambina di 12 anni pronta a far sputare sangue al grido di vendetta; Lèon un sicario dolce e buon e Stansfield (Gary Oldman), un poliziotto della DEA del reparto antidroga
che in realtà è un assiduo consumatore di droghe, un uomo delirante quasi come il cappellaio matto, il contrario del perfetto poliziotto che, elegantemente vestito, ammazza la vita sotto le tragiche note di Beethoven.
È una cellula corrotta che rappresenta una forte critica allo Stato a suon di musica e spari.
Lèon è quindi un film che colpisce, dall’inizio alla fine. Colpisce per la sua storia che è crudele e dolce allo stesso tempo, per quest’amore strano e bello, per la violenza e la delicatezza e per i personaggi che hanno un’anima e un volto concreti. Besson è la contraddittorietà fatta persona. Butta all’aria ogni ovvietà, ogni cliché, ogni luogo
comune: la donna bambina piena di vendetta e pupazzi, l’assassino buono, il poliziotto psicopatico: il buono, il cattivo, la vendetta, le bombe a mano e l’amore in un finale epocale e da brividi. È una pietra preziosa del cinema dove generi e sottogeneri si mischiano con un’eleganza tutta francese.
Tra baguette armate e croissant da inzuppare nel latte fresco.
Thriller, dramma, azione, noir post-moderno, brutalità e dolcezza, crudeltà e tenerezza, si fondano nel caschetto e nella sigaretta malinconica di Mathilda, nella valigetta della morte e negli occhi del dolce Lèon.
Possiamo osservare 136 minuti di pura poesia che dagli anni ’90 non smette di bruciare.
E voi? Quali occhi usate per guardare questo film?