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Cannibalismo: what else?

Il primo a scoprire che in ogni uomo c’è del buono fu un cannibale.

Ivan Della Mea

In ogni società, soprattutto in quella occidentale, e in ogni tempo, la morte è sempre stata vista con riverenza, come sì parte integrante della vita, ma come un qualcosa da tenere a debita distanza, quasi da temere. 

“Quando noi viviamo, la morte non c’è, quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti.”: questo è il massimo insegnamento in tema di morte del filosofo greco Epicuro.

Eppure perché la morte ci fa così tanta paura? Cosa ci allarma? La morte stessa o il modo in cui potremmo morire? E se ci fosse vita oltre la morte o se la stessa morte desse vita? Ogni culto o religione ha un suo credo al riguardo – alcuni così vicini a noi, altri così distanti da farci sentire fuori dal mondo. È il caso della pratica del cannibalismo, o antropofagia che dir si voglia. 

Silvia Bello, antropologa esperta di comportamento umano, nonché dipendente del Natural History Museum di Londra ci spiega nell’articolo sulle pagine di Quaternary Science Review insieme a William Marsh, anch’esso del Natural History Museum, che “Il cannibalismo, per quanto oggi possa sembrarci una pratica estranea e raccapricciante, è stato diffuso a lungo, e se ne hanno testimonianze anche in tempi recenti. (…) Nella cultura Warì del Sud America, per esempio, il cannibalismo era praticato fino agli anni Sessanta, come simbolo di grande rispetto nei confronti dei morti, infatti piuttosto che lasciare che i vermi mangiassero i resti dei propri cari, un fenomeno percepito come una mancanza di rispetto, consumare altri individui era visto come una sorta di atto di amore”.

Nel regno animale è praticato da migliaia di specie, ed esso ha moltissime funzioni, soprattutto per la loro continuità evolutiva: ci si ciba dell’esemplare più debole perché diversamente sarebbe messo ai confini, se il cibo scarseggia e i cuccioli son troppi, sono i più “facili” da sacrificare perché ancora non hanno una loro importanza nel cerchio della vita, ci si ciba dei cuccioli dei maschi rivali in segno di potere, etc. 

Ma seppur ai nostri occhi è macabro, l’uomo nasce come animale e come tale – fin quanto non è subentrata la coscienza sociale, o l’etica – ha fatto esattamente ciò che la natura richiedeva: sopravvivere. Fu Cristoforo Colombo a coniare il termine cannibale per identificare la pratica utilizzata da una tribù dei Caraibi. Ma ancor prima dell’800, in tutta Europa, vi sono testimonianze di cannibalismo anche con gli uomini di Neanderthal. Ma perché mangiare un altro uomo? 

Per sopravvivere, per inglobare in sé le virtù dell’altro, per possederlo, per non lasciar volar via l’anima di chi è morto (…)

Curiosità 

  • Nel 1816, in seguito all’inabissamento della fregata francese Méduse, 139 persone si trasferirono su una zattera per 13 giorni. Ne furono recuperate vive solo 15, sopravvissute mangiando i cadaveri dei compagni di viaggio. 
  • A seguito del disastro aereo delle Ande, per contrastare la carestia e le temperature rigide, i sopravvissuti dovettero ricorrere al cannibalismo (14 su 45 i superstiti – tratti in salvo solo 2 mesi e mezzo dopo lo schianto). 

Vi consiglio la visione di questo documentario (uno dei tanti capolavori del Progetto Happiness) dove il giovane Giuseppe (ideatore del progetto) è a tu per tu con un aghori, un cannibale di necrofagia di Varanasi, India.

Antonietta Della Femina

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Antonietta Della Femina

Classe ’95; laureata in scienze giuridiche, è giornalista pubblicista. Ha imparato prima a leggere e scrivere e poi a parlare. Alcuni i riconoscimenti e le pubblicazioni, anche internazionali. Ripete a sé e al mondo: “meglio un uccello libero, che un re prigioniero”. L’arte è la sua fuga dal mondo.
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